In Italia diremmo che non ha mangiato il panettone, negli States si usa semplicemente fired (licenziato). Stiamo parlando di Kevin McHale, ex head coach degli Houston Rockets, licenziato dalla dirigenza texana dopo un mese di regular season per riuscire a stabilizzare uno spogliatoio divenuto esplosivo. Le spavalde ambizioni d’anello dei Razzi sono state fortemente ridimensionate dagli exploit di Golden State e San Antonio, ma soprattutto dalle 7 sconfitte nelle prime 11 uscite stagionali di Houston, sufficienti secondo il GM Daryl Morey per un cambio in panchina. Nessuno stravolgimento però, in quanto le redini della franchigia sono state affidate per il momento al fedele assistente di McHale, JB Bickerstaff, figlio del veterano Bernie, sulle cui spalle aleggiano minacciose le ombre di Jeff Van Gundy e Tom Thibodeau.
Nonostante la sua permanenza sul pino texano sia precaria, però, il nuovo coach dei Rockets è riuscito a riportare la franchigia in zona playoff grazie ad un rollino di marcia di 8 vittorie e 7 sconfitte. Tuttavia, le finali di Conference raggiunte pochi mesi fa potrebbero essere state l’apice del successo per questo gruppo; Golden State resta irraggiungibile, l’anello è un lontano miraggio e una profonda rivoluzione tecnico-tattica sarebbe dietro l’angolo.
Dwight Howard potrebbe essere il primo tassello dello scacchiere texano a cadere: secondo l’insider NBA Chris Sheridan, il centro ex-Orlando Magic potrebbe essere spedito, insieme alla sua player option da 23 milioni di dollari, a Miami in cambio di Hassan Whiteside (anch’esso in scadenza) e un pacchetto di seconde linee. Nonostante abbia perso la fisicità di un tempo, Howard resta un giocatore validissimo e l’inconsistenza che occupa negli schemi offensivi dei Rockets, tutti finalizzati su Harden, provocano parecchi malumori nel 30enne di Atlanta che avrebbe quindi deciso di lasciare Space City.
DIFESA DA RIVEDERE
“L’attacco vende i biglietti, la difesa vince le partite”: a Houston non la pensano esattamente così! L’arrivo di Harden nel 2012 è coinciso con una crescita del potenziale offensivo, ma contemporaneamente con il regresso delle prestazioni difensive che restano, tutt’ora, il vero fardello di questa franchigia. I numeri non mentono: i Rockets sono il quinto attacco della Lega (104 di media) e al tempo stesso la ventottesima difesa (107) davanti solo a Pelicans e Kings; a ciò contribuiscono nettamente le mediocri prestazioni a rimbalzo difensivo (20° posto NBA) che lasciano spesso seconde opportunità agli avversari. Harden e Howard sono i principali capri espiatori di un inefficiente meccanismo difensivo che caratterizza, invece, tutto il roster.
Dove intervenire? Innanzitutto limitare il numero di palle perse (10 a partita), che oltre a risultare deficitarie per l’attacco, contribuiscono spesso e volentieri ad innescare le transizioni offensive degli avversari; la scarsa voglia di tornare a proteggere il ferro e, in generale, la propria metà campo, fa il resto! L’emblema di quanto detto è la partita persa all’American Airlines Arena il 1° Novembre: dopo aver chiuso il primo tempo sul +19, i Rockets si fanno travolgere dai micidiali contropiede degli Heat che alla fine vinceranno di 20; in panchina, allora, c’era McHale ma la situazione con Bickerstaff è rimasta tale.
MERCATO ERRATO
L’arrivo a Clutch City di Ty Lawson da Denver era stato sbandierato come il colpo fondamentale per trasformare finalmente i Rockets in una squadra capace di vincere il Larry O’Brien; 5 mesi dopo, dell’ex compagno di Danilo Gallinari ai Nuggets si sono praticamente perse le tracce.
Protagonista del difficile avvio dei texani con circa 38 minuti di media, il suo impiego si è progressivamente ridotto fino ai soli 18 a gara concessi da Bickerstaff nel mese di dicembre. Il suo attuale score sentenzia 6 esili punti e 4 assist a partita; medie che hanno indotto il coaching staff a sostituirlo con Patrick Beverley, designato partente in estate e titolare fisso con 30 minuti e 12 punti di media nelle ultime uscite. Lawson ha gradualmente perso terreno, pure, nei confronti di Marcus Thornton, il quale in virtù della sua duttilità tattica vede il campo per più di 20 minuti a gara e flirta spesso e volentieri con la doppia cifra di punteggio.
Stessi problemi per quanto riguarda gli esterni titolari: unico certo del posto fisso in quintetto è Trevor Ariza, all’anagrafe una Small Forward ma schierato all’occorenza come Power Forward per facilitare la circolazione di palla e il tiro dall’arco. All’ex Wizards si alternano, con risultati discutibili, i vari Corey Brewer, Terrence Jones, e i lunghi Motejunas e Capela: tutti giocatori con caratteristiche diverse e per questo controproducenti alla creazione di una specifica identità tattica; perchè avere una coperta lunga è privilegio di poche franchigie, standardizzare un quintetto base è una necessità.
Se riuscire quantomeno ad eguagliare il piazzamento del 2015 sembra oggi essere un’utopia, raggiungere la post season sarà quanto mai fondamentale per dar conforto ad una piazza appassionata come quella di Houston che, a settembre, era partita con ben altri proclami. Attenzione a considerare pura formalità quest’obiettivo; l’esclusione di OKC dagli scorsi playoffs ci insegna che nella NBA le sorprese sono sempre dietro l’angolo.