Magazine Cinema
Un uomo e un ragazzo dentro ad una vetusta stazione metereologica.
Il mare, la nebbia, un segreto, la morte; la luce, sempre.
L’atmosfera è greve fin da subito. Vediamo uno strapiombo avvolto nella foschia e solo dopo si palesa al nostro occhio la figura del ragazzo in bilico sul precipizio. La metafora è chiara, questo è un film di esistenza (a tratti sopravvivenza) precaria, ma ancora prima, è un film che si appoggia totalmente all’ambiente che da sfondo passa a fondamento della vicenda. La natura è protagonista come i due uomini, fa paura (l’orso), disorienta (la nebbia), alimenta (le trote), non si cura dell’umanità (gli isotopi radioattivi). E in questo scenario appare come uno splendido paradosso il fatto che nell’estate artica priva di zone d’ombra, con il sole, sebbene pallido, che illumina ogni istante della giornata, nasca e proliferi un segreto tremendo che non riesce ad essere rivelato.
E questo perché, nella tesi pessimistica del regista Aleksei Popogrebsky, anche due uomini fuori dal mondo e collegati ad esso tramite una radio gracchiante, nonché isolati dalle ipocrisie urbane, sono incapaci di vivere serenamente.
Il motivo sta nella relazione gerarchica istituita dall’uomo esperto pronto a bacchettare il ragazzo per ogni minimo errore, tuttavia le colpe pendono soprattutto dalla parte dell’adulto poiché il suo ego lo porta incoscientemente ad abbandonare il principiante per andare a pescare. L’ottusità del più anziano che non torna sui suoi passi, e il conseguente terrore del più giovane che come un animaletto ferito è costretto a nascondersi fra le terre congelate, racchiudono la pellicola all’interno di sentimenti contrastanti (e convincenti), con il paesaggio che silente assiste a queste miserie.
Si tratta di cinema di alto profilo. La mano del regista è sapiente tanto nell’inquadrare la splendida e desolata location (infatti si è portato a casa il premio come miglior fotografia dall’ European Film Academy) che nel creare una cortina di progressiva tensione fra i due personaggi (i quali, infatti, hanno entrambi portato a casa il riconoscimento come miglior attore a Berlino ’10).
Tuttavia un’esegesi del tutto positiva non è mai stata scritta, e allora, forse con un po’ di pignoleria, viene da evidenziare quanto la seconda ora di proiezione sia costellata da eventi che si assoggettano al mezzo cinema piuttosto che ad una oggettiva razionalità, si tratta di qualche lungaggine che è seguita da un paio di scelte poco chiare (perché la contaminazione del pesce? E la decisione finale dell’uomo?), scelte che non fanno raggiungere vette cinematografiche altissime ma che comunque sono in grado di ben incominciare la scalata artistica.
Alla fine dell’estate arriva il buio, e a noi resta l’idea che Kak ya provyol etim letom (2010) pur avendo margini di perfettibilità è un film che, visti gli argomenti affrontati, in alcuni frangenti riesce davvero a ghiacciare il cuore.
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