Scrive oggi Luis Hernández Navarro, editorialista del messicano “La Jornada” e collaboratore del “The Guardian”: «Hugo Chávez è stato un personaggio in carne ed ossa uscito dal più fantasioso racconto di Gabriel Garcìa Marquez». Esatto, un personaggio da romanzo. E così, il mondo perde un grande protagonista. Come in un romanzo. Il protagonista alternativo, il caudillo di quell’universo parallelo così lontano dal nostro plumbeo quotidiano. Un universo distante da Roma, da Milano, da Berlino e da Bruxelles, dai governi monetaristi europei, dai patti di stabilità e dall’austerity. Un mondo separato da un oceano che sulla cartina ha confini ben delimitati, ma che nella realtà quintuplica la sua grandezza.
Scrive il sociologo argentino Atilio Boròn, PHD ad Harvard: «Fu Chávez che, nel cuore della notte neoliberale, reintrodusse nel dibattito pubblico latinoamericano –e in grande scala internazionale- l’attualità del socialismo. Più che altro, la necessità del socialismo come unica alternativa reale, non illusoria, contro l’inesorabile decomposizione del capitalismo, denunciando le manchevolezze delle politiche che si incaricano di trovare soluzioni alla crisi integrale e di sistema e preservando i parametri fondamentali di un ordine socio-economico storicamente messo nel dimenticatoio». Come quando permise ad oltre due milioni di bambini di poter accedere all’istruzione obbligatoria senza particolari vincoli economici burocratici, come quando elevò la qualità del sistema sanitario pubblico, o come quando nazionalizzò gran parte delle risorse produttive del paese, cambiando drasticamente il dialogo con gli Stati Uniti sull’approvvigionamento petrolifero in Sud America.
Se oggi abbiamo la ventura di inquadrare un’area latinoamericana indipendente, emancipata e capace di utilizzare le proprie risorse per crescere da un punto di vista nazionale e continentale, questo lo dobbiamo a Hugo Chávez. Se oggi abbiamo la possibilità di guardare dal buco della serratura un mondo che vive in una realtà che qui in Europa sembra impossibile, questo lo dobbiamo a Hugo Chávez.
Un contraltare al grigiume a cui siamo abituati, in un mondo che ci parla di libertà ma che di libero ha poco o nulla. Un mondo definitivamente perdente, che ha cercato di demonizzare l’alternativa in tutti i modi (“Chávez dittatore”, “Chávez amico dei cattivi”, “Chávez oppressore”), come fa il più meschino e invidioso al cospetto del successo di quello più bravo. Perché se sui quotidiani europei c’è una rincorsa alla battuta più sarcastica e allo schizzo di veleno più elegante, il resto del mondo piange colui che negli ultimi vent’anni ha saputo incarnare più di chiunque altro il punto minimo di distanza tra le speranze degli ultimi, e il cuore dei capi. Ed è strano, perché per anni le democrazie europee e nordamericane hanno calcato la mano su quella mancanza (voluta) di “rispettabilità borghese” da parte del lìder venezuelano, cercando di far passare il messaggio secondo cui “il Venezuela era un paese isolato e oppresso”. No, il Venezuela da anni è un paese integrato e attivo nella sua area, con spiccata propensione all’internazionalismo, mantenendo una forte componente patriota e una salda coscienza di rispettabilità individuale e di amor proprio comune.Un paese integrato e consapevole perché, come dicevano in molti per le strade a Caracas, “Chávez somos nosotros”. Chávez muore, e lascia una nazione (e un continente) consapevole, libera, guerriera, e senza debiti con il Fondo Monetario Internazionale. Una nazione ove il popolo ormai conosce la giustizia sociale, dove la gente comune è stata istruita alla lotta e alla rivendicazione della propria dignità, sua e dei vicini. Quella dignità che non può essere data in pasto ai mercati, o ai grandi flussi di denaro e titoli di stato. La dignità del cittadino, e dell’essere umano: una rarità, dalle nostre parti. Che non si declassa con un’agenzia di rating, che non si spalma su un patto di stabilità, tra una privatizzazione e una politica di austerità.Un solco che rimane inciso, pronto a rivivere per sempre nelle parole, nelle speranze e nelle azioni di chi è ancora capace di intraprendere quel sentiero disboscato da erbacce, che porta ad una realtà possibile e vicina al cuore, seppur lontana da occhi e orecchie. Perché se è vero che un grande protagonista muore, è vero anche che la sua storia e le sue idee non avranno mai un capolinea. Come in un romanzo.
(Pubblicato su “Il Fondo Magazine” del 7 marzo 2013)