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Hunger

Creato il 19 aprile 2012 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Hunger

 

Anno: 2008

Distribuzione: BIM

Durata: 96′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Gran Bretagna

Regia:  Steve Mc Queen

 

Correva l’anno 2011, durante la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, quando si è avuto modo di apprezzare Shame, il secondo lungometraggio di Steve Mc Queen, le cui critiche, per altro  positive, si affidavano ad un confronto con il precedente Hunger (visto, evidentemente  fuori  dal confine patrio).

In genere, infatti, si riduceva quest’ultimo alla trama di un uomo privato della libertà, in quanto detenuto in prigione, al fine di presentare l’altro lavoro come esatto contrario, ovvero la storia di un individuo che nel mondo occidentale, per antonomasia consumistico, possiede ogni bene, ma si ritrova preda e perpetua vittima di se stesso, del proprio corpo e del sesso.

Hunger merita un’analisi a sé, senza paragoni  o deviazioni di altro genere.

Nell’esordire, il regista propone un angolo di inferno più sadiano che dantesco, alla maniera del Pier Paolo Pasolini di Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove albergano i Gironi del Sangue e della Merda, “materie” che miste ad urina e cibo avariato sono espletate ed impiegate dai carcerati, paradossalmente, per vivere: gli “impasti” servono, in genere, per sigillare messaggi cartacei da consegnare durante i colloqui in parlatorio, al mondo di là dalle sbarre.

La macchina da presa  soprattutto attraverso i dettagli (sulle pareti si scorgono  quasi opere d’arte come i cerchi concentrici perfetti, simili a quelli della vita di un albero o dei campi di orzo, “dipinti”, senza dubbio, con le feci), insiste e  mette a  fuoco, mediante una sua palese  anticipazione, il vero fulcro della  vicenda: l’individuazione di una forma di protesta che faccia capitolare il governo inglese,  fino a  quel momento, sordo di fronte ad ogni richiesta  dei prigionieri.

Hunger

«Nella mia testa  c’è l’immagine di un bambino  che rifiuta di mangiare. La madre gli dice che non può alzarsi  da tavola finché non mangia. In  quel momento, per  quel bambino, in un mondo governato dai suoi genitori, rifiutarsi di mangiare è l’unico modo  che ha per opporsi.»

La seguente dichiarazione di Steve Mc Queen  che sembra rievocare il concetto viscontiano di immagine come punto di partenza (Ossessione) ingloba interamente la trama del film presentandone la cellula-madre: sottraendo, o meglio destrutturando i due eventi iniziali, posti  in forma di prologo  parallelo, si giunge al vero cuore pulsante incentrato sulla lenta agonia del personaggio principale Bobby Sands.

All’inizio, non a caso, si assiste alla  scena  in cui l’agente penitenziario Raymond Lohan pone  in acqua le sue mani per lavarne via il sangue e rinfrescare le ferite  alle nocche. La sua  reiterazione  indurrebbe, erroneamente,  a ritenere  l’ autore del gesto come protagonista della pellicola.

Il meccanismo si ripete, in montaggio parallelo, quando all’ingresso nel carcere di Long Kesh (Irlanda del Nord),  soprannominato The Maze, la macchina da presa si ferma sul volto di un nuovo detenuto di nome Davey Gillen. La successiva svestizione di quest’ultimo davanti alle guardie in uniforme segna la differenza tra la categoria degli uomini liberi e quella dei simili nudi, privati della loro dignità.

All’epoca dei fatti del film, il 1981, i detenuti repubblicani stavano inscenando “la protesta della coperte” (Blanket Protest) e quella “dello sporco” (No – Wash o Dirty Protest).

Dalla mostrazione dei  due punti di vista completamente opposti ne deriva un terzo: la  serrata indagine sul rapporto   dentro/fuori  autorizza   a  concentrarsi, fino alla fine, soltanto sulla figura di Bobby Sands, un “soldato” dell’ IRA, interpretato dal magnifico  Michael Fassbender.

Di Bobby Sands Steve Mc Queen decide di inquadrare la cruda verità della tragedia di un uomo che muore di inedia: come ultima ancora di salvezza, nella ferma speranza che qualcosa possa cambiare,  insieme ad altri compagni, avvierà lo sciopero della fame.

Hunger

La decisione di rifiutare il cibo, presa in un eccesso d’ira collettiva, dopo la consegna  ai detenuti degli abiti civili definiti “indumenti  da pagliacci”, rappresenta l’immediata  risoluzione  di un’intuizione. Si tratta di una forma di lotta non-violenta, metodica ed ordinata, esattamente conforme, per organizzazione, ai metodi rieducativi del carcere in cui, con sinistra puntualità, si verificano azioni punitive da parte degli agenti distribuiti in vari ambienti dell’edificio e dotati di  ogni tipo di arma consentita per colpire (ça va sans dire, oltre alle mani).

I  prigionieri non possono fare altro che “prepararsi” al  macello, tentando di difendersi, ma durante quei momenti di pura follia, l’automatismo sembra generare un’interminabile e quella sì, criminale coazione  a  ripetere.

Struggente la ripresa dal basso, come un cristo mantegnano messo al contrario, del corpo agonizzante di Bobby Sands dopo esser stato torturato senza posa: recuperando inoltre un tratto tipico del trucco e del costume da clown (alias la sua uniforme), un primo piano dall’alto del volto straziato ed immobile evidenzia un rivolo di sangue all’angolo destro del labbro.

Ora sì che Bobby somiglia ad un pagliaccio per via di quella bocca rossa e deformata nelle dimensioni!

In una splendida inquadratura tagliata al centro da una parete bianca la massa (il meccanismo) ed il singolo (il barlume di coscienza) si scontrano: a sinistra i poliziotti, in assetto antisommossa, continuano a picchiare ogni prigioniero  estratto a forza dalla cella; a destra, terminato forse il suo compito o incapace di continuare, un giovane agente piange disperato chiedendosi, senza parole, come e perché sia possibile  la violazione  completa di ogni diritto umano. Tuttavia quelle amare lacrime potrebbero essere indotte dalla pietà, sentimento che, come ribadisce una voce femminile fuori campo, va controllato e represso: i detenuti, esperti dei meandri dell’animo umano, non esiterebbero, si avverte, a ricorrere a forme clamorose, plateali, di martirio per sensibilizzare l’opinione pubblica.

Bobby Sands ricomincia dal corpo e dalla valutazione, in termini  quantitativi, del controllo che di esso ancora mantiene: dimagrire non equivale ad una forma di suicidio, bensì ad un’affermazione  del proprio potere decisionale.

Tutto è stato pianificato nei minimi dettagli: chi perirà sul campo di battaglia per la libertà verrà  rimpiazzato da altri “soldati”.  Mangiare  e bere, ossia soddisfare due dei bisogni primari dell’essere umano, si mutano, in carcere, in atti a sostegno al governo, giacché aumentano la resistenza del corpo a nuovi e violenti  soprusi .

Hunger

La prima reale spiegazione di ogni  misura detentiva  deriva dalla semplice “esistenza” del corpo in quanto imprigionabile. Sosteneva questo concetto anche Michel Foucault nel celebre saggio del 1975, Surveiller et punir: Naissance de la prison .

L’ultima parte di Hunger è interamente incentrata sui giorni che l’”eroe” Bobby trascorre nel reparto ospedaliero del carcere, essendosi terribilmente deterioratesi le sue condizioni di salute.

Il ventre cavo, gli occhi spenti, le piaghe da decubito, i fiotti di  sangue dalla bocca, le lenzuola delicate in cui avvolgere un corpo inerte e sempre più magro per lenire il dolore da contatto: i particolari esibiti con dovizia appartengono al piano  narrativo, non a quello voyeuristico tout court, e l’insistenza si fa cifra stilistica.

Viene in mente quanto Primo Levi affermava a proposito dei suoi romanzi, ovvero di non aver  assunto come  modelli  di riferimento Petrarca o Goethe, ma «il rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in laboratorio, e  che deve essere chiaro e  coinciso e concedere poco a quello che si chiama il “bello scrivere”».

Nella stessa ottica rientra il lunghissimo dialogo (un piano sequenza di 22′) tra Bobby ed il prete a cui egli comunica l’inizio dello sciopero della fame.

L’azione concreta si contrapporrà  alle vuote parole di una predica colma di retorica sui concetti di peccato e di disamore per la vita.

«I have my belief » ribadisce Bobby: i loro due primi piani (si comincia con quello del protagonista), lungi dal giudicare, “spiegano”  il rovesciamento logico della baldanzosa sicurezza di chi indossa una divisa e parla a  nome di Dio. Il dubbio serpeggia e sconvolge un soldato della fede, mentre la chiarezza di chi decide di morire per vivere e sa,   privo di alternative, di operare, in quella circostanza, nel migliore dei modi possibili, senza  passi  indietro, incrementa uno stato di  tranquillità.

Liberatorio giunge il flashback finale e quindi ancora un’immagine: Bobby, in punto di morte, ricorda se stesso da ragazzo quando, durante un raduno di corsa campestre, un puledro affogò ferito, ed egli agì, privo di ripensamenti, mentre tutti blateravano sul da farsi.

Per nitore, pulizia  e franchezza formale, la pellicola regala agli occhi la speranza di strade esistenti e percorribili in direzione di un ottimo cinema.

Mariangela Imbrenda 

Hunger
Scritto da il apr 19 2012. Registrato sotto IN SALA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione

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