HUNGER GAMES (Usa 2012)
Generalmente non sono molto attratto dai fenomeni editorial-cinematografico-giovanilistico-commerciali che a cadenza più o meno annuale invadono i banconi delle librerie e i multisala di periferia: non ho mai letto né visto la saga di Harry Potter e di avvicinarmi anche solo col pensiero ai vampiri di Twilight non mi ha mai sfiorato nemmeno l’idea. Perché? Non lo so, sono snob, o forse semplicemente fuori tempo massimo. Ma soprattutto: perché stavolta invece sì? Perché andare a vedere Hunger games, tratto dal primo volume di una già vendutissima trilogia fantapoliticoscientifica di una tale Suzanne Collins? Non so nemmeno questo. Sarà che se n’è parlato tanto ed è arduo, in fin dei conti, resistere a un simile martellamento pubblicitario per chi, come me, è incuriosito da ogni genere cinematografico o quasi. Sarà che mi intrigava assai questa trama spudoratamente copiata da Battle royale, cult movie giapponese di una dozzina d’anni fa.
Ecco, appunto: la trama. Siamo in una specie di America post-apocalittica chiamata Panem, posto orrendo che vide un tempo la rivolta armata dei 12 distretti che lo compongono. Rivoluzione fallita da cui nacque, come monito, l’usanza dei cosiddetti, appunto, “hunger games”: ogni anno un ragazzo e una ragazza di ciascun distretto, volontari o estratti a sorte, devono sfidarsi in un bosco fino alla morte, in diretta tv. Ogni edizione può decretare la vittoria – e dunque la sopravvivenza – di uno solo di essi. Il film segue le peripezie dei due “tributi” del distretto più povero, il dodicesimo: lei, Katniss Everdeen, esperta di tiro con l’arco*, è una guerriera nata; lui, Peeta Mellark, da sempre innamorato di Katniss, è uno smidollato.
Che dire? Stavolta il mio intuito cinematografico non mi ha tradito: per essere una pellicola commerciale che ha come target un pubblico di adolescenti malato di saghe e reality show, e pur essendo diretto da una nullità come Gary Ross (quello di Pleasantville e Seabiscuit), Hunger games non è affatto male. Certo, è troppo lungo. Certo, è spesso patetico (la morte della bambina di colore poteva durare la metà e doveva essere decisamente più sobria). Certo, la vicenda, si diceva, è palesemente ispirata a un’opera di gran lunga precedente. Certo, i luoghi comuni del genere action-fantascientifico per giovinastri abbondano. Certo, spesso si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un riassunto, a uno spiazzante autoBignami. Eppure c’è qualcosa, dietro queste immagini e avventure per molti versi scontate, un nonsoché in grado di trasformare una pellicola per adolescenti più o meno problematici come tante in qualcosa non dico di memorabile ma quasi. Il ritmo, innanzitutto, che al netto delle scene patetiche di cui sopra è incalzante, avvincente: Hunger games dura 142 minuti, eppure è in grado di scorrere in scioltezza. Ma a risultare interessante e non scontato è soprattutto il gioco psicologico che prende vita tra i protagonisti: Peeta ama Katniss, lei non ama lui. Eppure lei gli salva la vita in più di un’occasione mentre lui si allea, forse per finta, con chi cerca di ucciderla. Lei è povera, lui è benestante: un flashback ci mostra Peeta intento a dar da mangiare ai suoi maiali, salvo poi gettare un tozzo di pane alla ragazza in un gesto a metà strada tra l’elemosina, il disprezzo, la pietà e l’affetto. Quale film americano di consumo ci ha mai mostrato una scena “d’amore” così cruda e così lercia? Eppure sarà Katniss, alla fine, a usare il ragazzo per i suoi scopi, fingendo in diretta tv, per compiacere un pubblico crudele, un amore che di fatto non esiste: va ricordato che Hunger games è solo il primo capitolo di una trilogia i cui prossimi episodi ci mostreranno probabilmente le conseguenze di un simile comportamento, con Katniss innamorata in realtà di un altro ragazzo, ben più aitante di Peeta, costretto a sorbirsi sul piccolo schermo, 24 ore su 24, i finti intrallazzi dei due tributi.
Tanti spunti, insomma, e tante domande ancora senza risposta. Saranno in grado i prossimi capitoli della saga di tenere alta questa suspense non solo d’azione ma anche morale e sentimentale? Riuscirà la trilogia a uscire da una tutto sommato facile e schematica critica ai reality (con forti dosi di Truman show) per trasformarsi in qualcosa di più ricco e complesso? Sarà in grado la nostra Katniss di diventare un’eroina generazionale come la sua collega innamorata dei vampiri? Riuscirà il fighettume di questo primo episodio (c’è pure un improbabile Lenny Kravitz) a farsi da parte per una maggiore sostanza? I secondi capitoli delle saghe sono generalmente migliori dei primi: chissà che non accada così anche stavolta.
Alberto Gallo
* L’immagine della splendida Jennifer Lawrence che si concentra per scoccare una freccia (vedi anche locandina) è già una delle icone cinematografiche di questo secondo decennio del XXI secolo. Chissà che in America, visto l’enorme successo del film, non ci sia stata un’impennata nelle iscrizioni ai corsi di tiro con l’arco…