The Hunger Games, USA, 2012, 142 min.
E’ vero, è stato uno dei film più reclamizzati dell’ultimo anno, ma alla fine il polverone lo hanno fatto gli addetti ai lavori che proprio per questo ne hanno parlato a profusione aumentando ancora di più la pubblicità. Il nuovo fenomeno adolescenziale degli anni Dieci? Bah, vedremo con i seguiti (due). Il nuovo Twilight? Decisamente no. Un Battle Royale edulcorato for dummies? Nì. Un discreto film d’intrattenimento con qualche velleità sociologica? Questo è già più ragionevole.
Veniamo alla storia: in un prossimo futuro il Nord America si chiama Panem (et circenses…vabbè questa era troppo facile) ed è diviso in 13 distretti. Uno di questi li ha assoggettati tutti e affinchè non ci siano più ribellioni e la gente non perda memoria di quanto avvenuto, ogni anno gli altri 12 devono sorteggiare due candidati, un maschio e una femmina, che si andranno a sfidare in un reality mortale, gli Hunger Games appunto, dal quale solo uno uscirà vincitore.
Il film è diviso nettamente in due sezioni, quella pre-giochi e gli Hunger Games veri e propri, con in mezzo una sorta di limbo nel quale ci vengono mostrati i 24 partecipanti allenarsi nella futuristica Capitol City per essere valutati dagli sponsor. La prima parte, quella di introduzione e descrizione dei personaggi e del mondo creato dalla scrittrice Suzanne Collins è, piuttosto a sorpresa per chi scrive, quella riuscita meglio. Fortunatamente il regista Gary Ross non è, o almeno non del tutto, il classico burattino che si usa per le trasposizioni di brand milionari al quale si chiede di svolgere il suo compitino e non strafare. Pur non essendo il nuovo Kubrick (e, scopro ora, pur avendo vinto un Razzie per la peggior sceneggiatura con I Flintstones), Ross una sua idea di cinema ce l’ha come aveva dimostrato nel film di debutto Pleasantville. Nel descrivere il distretto 12, quello più povero, dal quale proviene la protagonista Katniss (la bella e brava Jennifer Lawrence di Un gelido inverno) il regista si affida, senza troppa fantasia ma con efficacia, a tutte le tonalità di grigio, facendo risaltare ancora di più il verde della natura “proibita” nella quale la protagonista va a cacciare col suo infallibile arco. Una serie di inquadratura con camera a mano sui dettagli – uno scarpone sporco, un terreno fangoso, uno sguardo fugace - riescono poi a trasmettere con convinzione il mood e l’ambientazione e descrivere con rapide pennellate i rapporti tra i personaggi.Con il sorteggio dei candidati e il suo inevitabile (non) colpo di scena, si entra poi nel vivo della pellicola, quella in cui inizia anche la descrizione della “società dello spettacolo”, ovviamente un po’ ingenua e facilona ma non del tutto disprezzabile. I 24 partecipanti ai giochi sono le vittime di uno show che tutti i distretti seguono e che produce ingenti guadagni. I suoi protagonisti diventano per qualche giorno star amatissime su cui gli sponsor investono, a questo proposito è carina l’idea dei “power-up” che questi ultimi possono far recapitare ai concorrenti durante il gioco (anche se si trasformano in facili deus ex machina). Per concludere il metaforone c’è anche una mega-regia alla The Truman Show dalla quale grandi fratelli in carne e ossa interferiscono sui giochi per rendere più interessante lo spettacolo. Come si diceva nulla di nuovo, e sentire un personaggio dire “Se gli Hunger Games non li guardasse più nessuno, scomparirebbero” non ci rivela certo chissà quale grande verità, ma per il pubblico adolescente al quale è diretta la pellicola, si può dire che la critica venga posta in maniera dignitosa.
Peccato che il film contraddica clamorosamente se stesso nella seconda parte, quando iniziano gli Hunger Games ed ogni sottotesto socio-culturale va a varsi benedire in un cortocircuito divertente da analizzare. Al povero Gary Ross devono aver detto di volare basso con la violenza perchè il film deve incassare tanto ed essere guardabile da tutti. E così quello che si preannunciava come un gustoso bagno di sangue – che avrebbe dato senso alla pappardella teorica sopra esposta – diventa all’opposto un edulcorato ed esangue gioco di sottrazione per mostrare il meno possibile, per non impressionare. L’unica attenuante ce l’ha il personaggio della protagonista, il cui carattere le fa fare di tutto pur di non essere coinvolta negli scontri (ma con l’arco è micidiale), e infatti alcune sequenze contemplative si possono considerare riuscite, così come lo è la tecnica usata per rappresentare il suo stato di stordimento dopo la scena delle api.A parte questo però, il resto è tutto sbagliato.
Una mobilissima telecamera a mano azzera la violenza nelle scene di lotta non permettendo di capire granchè di quello che accade sullo schermo, le uccisioni avvengono quasi tutte fuori campo, di sangue (digitale) ne viene mostrata una goccia nella mattanza iniziale. Il risultato è una caduta di ritmo costante fino alla moscissima mezz’ora conclusiva (finale compreso) nella quale non si percepisce alcun pathos, nessun senso di tragedia o disperazione nella sorte di ragazzi costretti a uccidersi tra loro. Invece di alzare la temperatura emotiva del film creando i presupposti per essa, Ross (e la produzione) salta i preliminari cercando di andare direttamente alle conclusioni procedendo col pilota automatico e lascia, di conseguenza, piuttosto freddini.
Nel cast, come si diceva all’inizio, spicca la Lawrence, che si impegna ed è credibile, mentre gli altri giovani sono macchiette a cui si può far a meno di dare un nome. Il cast non-adolescente è formato da all star in vacanza premio: Stanely Tucci, Woody Harrelson, Donald Sutherland sono un pò tutti fastidiosamente sopra le righe mentre l’unico a prendersi sul serio è anche il meno credibile…Lenny Kravitz.Il risultato, considerate le intenzioni e il target che il film si propone, non è comunque da buttare; Ross azzecca delle buone trovate, soprattutto nella prima parte, che mi hanno piacevolmente colpito e riesce a rendere sopportabili ben due ore e venti di durata, ma poi deve soccombere alle logiche del film per young adult spacca-botteghino, con tutti i suoi endemici difetti.
EDA