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In un futuro non definito, il governo della nazione di Panem, per reprimere le insurrezioni del suo popolo, ha istituito un evento denominato Hunger Games. Si tratta di una specie di reality show a cui sono obbligati a partecipare tutti i dodici distretti che compongono la nazione, impegnandosi ad offrire regolarmente, e a ogni edizione, una coppia di concorrenti maggiorenni e di sesso opposto scelti a estrazione (i tributi). Riuniti, i ventiquattro concorrenti vengono trasferiti nella città di Capitol City, luogo in cui viene svolto l’evento, i giovani verranno addestrati ed esposti sotto i riflettori dei media, prima di essere infine liberati sul campo di battaglia dove avranno il compito di uccidersi a vicenda finché non rimarrà un solo sopravvissuto, il vincitore.
Come largamente osservato già in molteplici occasioni, un assunto simile era stato fornito appena qualche anno fa in “Battle Royal”, pellicola giapponese diretta da Kinji Fukasaku e propagandata ampiamente dalle infinite lodi tessute da Quentin Tarantino. Sebbene sia corretto affermare che “Battle Royale” e “Hunger Games” sono due lavori assolutamente scissi l’uno all’altro, diviene inevitabile e ancor più onesto riconoscere anche la forte assonanza che lega i due titoli, talmente analoghi da non poter sfuggire ad alcune considerazioni. A penalizzare gravemente “Hunger Games” infatti sembra proprio la non possibilità di potersi sporcare le mani come invece non aveva affatto paura di fare il suo disconosciuto fratellastro. La decisione di volersi orientare verso un pubblico di teenager ingabbia notevolmente la possibilità di rispettare la crudissima fame dei giochi promessa dal titolo mentre non trova alcun problema nel momento in cui c’è bisogno di incoraggiare la costruzione degli, ormai stancanti e ripetitivi, intrighi amorosi e sentimentali della categoria. Ciò provoca una larga dispersione non appena il film tenta di denunciare il bisogno efferato odierno di alimentare ad ogni costo lo spettacolo televisivo da somministrare al pubblico, oscurando completamente la violenza, fonte principale dell'audience del format.
I risultati ottenuti dal lavoro di Fukasaku erano stati indubbiamente molto più propositivi rispetto quelli raggiunti da Gary Ross in questa sua “(non)copia” americana. Ross sceglie di privilegiare la stravaganza dei soggetti e degli ambienti benestanti, rappresentando ripetutamente un mondo eccentrico e inverosimile in cui lo spettacolo violento e disumano dei giochi viene vissuto con pura attrazione e divertimento. Si prende il pregio di riuscire a consegnare in poche scene il giusto spessore all’ottimo Haymitch di Woody Harrelson, e a sfruttare abbastanza bene il talento della bravissima e bellissima Jennifer Lawrence. Ma la sensazione finale rispetto a “Hunger Games” resta sempre quella di aver censurato qualcosa di troppo, di aver curato, forse in maniera eccessiva, dettagli che sarebbero potuti passare tranquillamente in secondo piano. Scelte registiche che invece non sono passate nemmeno per un attimo nella testa di Fukasaku, il quale aveva preferito, senza alcun cruccio, di trascurare pesantemente sia sceneggiatura che preamboli per favorire molto di più il sangue, la violenza e la crudeltà. Volente o nolente, sono due facce differenti di una stessa medaglia. Su quale scommettere è una scelta vostra.
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