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Con "Hungry Hearts" Saverio Costanzo dimostra di essere uno dei pochi registi italiani in grado di pensare un film mediante forme visive. Geometrie chiuse, spazi asettici, dissolvenze a nero, piani sequenza, ottiche estreme, deformazioni percettive, cambi umorali, per una messa in scena schizofrenica e mutante. Dagli esterni ingialliti di New York a cucine polverose, da ambienti immunizzati a luoghi contaminati da germi e batteri. Già nell'inquadratura iniziale è situato l'intero film: nella toilette di un ristorante cinese, si gioca il primo atto di una tragedia asfittica che, nel rifugio, intercetta l'ipotesi di una salvezza natale impossibile.
Tutta la narrazione è proiettata in un'incubratrice, in una monade fuori dalla realtà: ogni gesto è autointernamento, ritorno alla purezza originaria del ventre materno. La follia del personaggio della madre modella e distorce le prospettive del film, plasmando l'inquadratura e portandola verso una dimensione uterina e fondativa. Qui la nascita, il grado zero, la sottrazione diventano ipotesi perverse di purezza e santità (ancora una volta, da un certo punto di vista, il folle è identificato con il santo). Improvvise assonanze di sguardo ci portano entro le traiettorie ansiogene di una psiche distorta, che modella il reale trasferendolo in una casa di bambole capovolta.
Ciò che sorprende in Costanzo è la sua voglia costante di sperimentare e mettersi in gioco, perfino di rischiare il ridicolo, noncurante dei rischi, ma fieramente, nobilmente irresponsabile. Il fish-eye didascalico che iperbolizza la chiusura dei protagonisti diviene strumento perfettamente in linea con un film che vive all'insegna dei parossismi: dalla colonna sonora di Piovani che moltiplica déjà vu e risonanze agli inquieti, febbricitanti movimenti di macchina, per non parlare della narrazione stessa. Pezzo dopo pezzo, Costanzo realizza una tragedia contemporanea, che adotta la pazzia della sua protagonista come punto di vista privilegiato della macchina da presa.
In questa favola nera macchiata di sangue, il nucleo famigliare è costretto a lottare e disgregarsi per potersi poi salvare: dovrà superare tutte le tappe della tragedia, perfino quella del sacrificio, per poter tornare a vedere i raggi del sole. L'immagine finale, sulla spiaggia, è la luce in fondo al tunnel (come lo sono, ambiguamente, tutte le immagini conclusive e serene del personaggio di Alba Rohrwacher con il bambino).
L'immagine di Costanzo sa essere sporca e insieme elegante, sottoesposta o bianchissima, sempre viva, sempre pulsante. Non c'è poi grande differenza tra gli interni asfittici e le strade di New York, che sembrano bolle chiuse dall'atmosfera irrespirabile. Servendosi di due attori in stato di grazia, Costanzo porta avanti un film mutante, in grado di cambiar pelle e di assumere una tensione crescente, che s'insinua inquadratura dopo inquadratura.
In definitiva "Hungry Hearts" si fa quasi un horror dove il cibo (o la privazione di cibo) è arma di distruzione: ciò che si ammira è allora il coraggio, l'urgenza, la voglia di osare di Costanzo, che appare quasi un unicum nel panorama nostrano, almeno per consapevolezza del mezzo e amore del rischio. Il film, del resto, è girato in 4:3, formato che facilita quel senso di oppressione che abita ogni inquadratura. La grana avvolge l'immagine, rendendola pulsante, mentre primissimi piani sembrano squarciare lo schermo ricordando la forza epilettica di uno Zulawski (o di un Lynch) domestico o forse, ancora di più, le atmosfere polanskiane di un'altra famosa (mostruosa) gravidanza, quella di "Rosemary's Baby".
Ma, più di qualsiasi altra cosa, Saverio Costanzo sembra se stesso, nella sua capacità sorprendente di inquietare e di parlare un linguaggio troppo spesso estraneo al cinema nostrano: quello cinematografico.
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