Il Reuters Institute for the Study of Journalism ha pubblicato giovedì 11 ottobre scorso “Ten Years that Shook the Media World”, analisi, come lascia intuire il titolo, dello tzunami che ha attraversato i media negli ultimi dieci anni, dell’impatto dei cambiamenti e delle prospettive future.
Il rapporto, scritto da Rasmus Kleis Nielsen, ricercatore post dottorando di RISJ, finanziato da The Open Society Foundations di Soros, analizza come i media di sei nazioni occidentali: Finlandia, Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna & USA, e due Paesi delle economie emergenti, Brasile ed India, hanno affrontato le enormi trasformazioni dell’ultima decade.
Lo studio, in 75 pagine, dopo la consueta introduzione, si articola in due filoni principali:
- Le grandi domande sul futuro dei media, quali la frammentazione e la fine delle audience massificate, se sia effettivamente la Rete ad aver ucciso i giornali tradizionali di carta e se vi sia in atto “un’americanizzazione” del sistema mediatico mondiale
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I grandi trend sull’uso dei media, sul mercato dei media e le prospettive economiche nonché sulle politiche adottate dai media nel periodo considerato.
I risultati del rapporto nel complesso evidenziano come nonostante le trasformazioni, i profondi cambiamenti avvenuti, ed in corso, le imprese dell’industria dell’informazione tradizionale, sia televisiva che della stampa, rimangano assolutamente centrali nell’attuale – nuovo – ecosistema informativo. In tutti e 8 i Paesi presi in considerazione le organizzazioni tradizionali continuano ad attirare un numero superiore di persone rispetto ad ogni altro tipo d’impresa dei media. Una conferma importante del valore dei newsbrand.
La crescente quantità d’informazione disponibile viene ritenuta elemento di arricchimento poiché in base a “provision”, quantità appunto di informazione fornita, “diversity”, eterogeneità e molteplicità delle fonti d’informazione e “reach”, quantità di persone raggiunte dall’informazione, l’incremento è un fattore positivo per la società e la democrazia. Tema che necessita di maggior approfondimento a mio avviso.
Crescendo che però ha un risvolto di forte incremento della competitività come sottolinea Massimo Russo, Content Manager del gruppo editoriale Espresso-Repubblica, che spiega: “operiamo in un mondo dove tutti – non solo l’industria dell’informazione – combattono per un solo obiettivo: catturare l’attenzione delle persone. E questa attenzione nella vita quotidiana è una risorsa scarsa”. Aspetto che inevitabilmente porta ad una frammentazione maggiore dell’audience e, come noto, erode la capacità di vendere spazi pubblicitari basandosi su un pubblico stabilmente rilevante in termini numerici.
Il rapporto continua spiegando che, pur non essendo facile isolare in termini di tendenza complessiva l’importanza di una singola entità, dei giornali cartacei nello specifico, al momento, contrariamente ai numerosi proclami [pour cause?] sul tema, a cominciare dalla famosissima ultima pagina del NYTimes, che by the way avrebbe dovuto essere nel 2013, le evidenze dello studio confermano che le media companies continuano e continueranno ad avere un ruolo centrale.
Al tasso annuale di decremento delle vendite di giornali cartacei in Finlandia ci vorranno 70 anni ed in Francia 20 prima di arrivare all’attuale livello di vendite di quotidiani in Italia dice lo studio, evidenziando, al di là di ogni altra possibile considerazione, il grave problema di media education, o forse più semplicemente di education tout court, del nostro Paese.
L’impatto di Internet dipende esclusivamente dall’attuale, e futuro, modello di business di ciascun singolo giornale, non da altro. Come emerso anche dalla ricerca di Enrico Finzi – AstraRicerche su gli internauti italiani e le news il modello prevalente è “e e” e non “aut aut”, i nuovi mezzi si affiancano ai vecchi, in buona parte, non li sostituiscono.
Insomma, Internet non ha ucciso i giornali e la questione è stata abbondantemente sovrastimata, analizzando l’utilizzo dei media nel mondo si rileva chiaramente come i vecchi ed i “new media” coesistano, sono più le attuali fasi cicliche di stagnazione e/o recessione dell’economia ad avere un impatto sui ricavi dell’industria dell’informazione che non la crescita della Rete. Quello che è avvenuto è che alcune forme di comunicazione pubblicitaria sul Web hanno distolto investimenti pubblicitari dai giornali – di carta – che erano cresciuti nell’illusione della loro permanenza continua.
Il rapporto, che per l’ennesima volta consiglio di leggere integralmente dedicandogli la dovuta attenzione, conclude argomentando che nella fase attuale siamo all’inizio della fase di trasformazione non alla sua fine e che attualmente siamo tanto lontano dalla rivoluzione di Internet quanto lo eravamo nel 1500 dalla rivoluzione della stampa. Per quanto mi riguarda sono sicuro che ci divertiremo, professionalmente parlando.