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I 150 anni nella Metropoli e in Colonia

Creato il 18 marzo 2011 da Zfrantziscu

I 150 anni nella Metropoli e in Colonia

La copertina di un libro di testo per le scuole cinesi
durante la "Rivoluzione culturale"

Vista dalla colonia, la sagra del nazionalismo celebrata ieri in tutta la Repubblica ha avuto due aspetti. Uno, proprio della Nazione italiana e di chi in essa si riconosce, gioioso con canti, balli, coccarde, tricolori, inni e fuochi artificiali e retorica a gogò; era la sua festa, del resto, che poteva succedere di diverso? Uno, qui in colonia, a sua volta quadripartito in disinteresse, franca opposizione, imbarazzati “sì però” e mobilitazione del giacobinismo accademico e mediatico. Quello, per intenderci, che da qualche mese si sta dando da fare per dimostrarci che i nostri antenati erano alti, biondi e si chiamavano Romani. E poi Bizantini, Aragonesi, Catalani, Spagnoli, Austriaci, Italiani e l'ultimo che arriva prende tutto. Vicende da colonia, insomma. Da tenere di conto solo per l'indottrinamento che alla fine del cammino porta innocenti creature a cantare, come guardie rosse, un inno convinti che la storia che la sottende sia quella raccontata, nel caso della Cina, dal Comitato centrale del Partito comunista cinese e, nel caso dell'Italia, da Roberto Benigni. Nell'un caso tragica nella sua catastrofica grandiosità, nell'altro, appunto, comica. Ma su questo aspetto, credo basti. Più intrigante è la celebrazione istituzionale, preparata qualche giorno fa anche con la distribuzione gratuita in tutte le edicole (così almeno mi si dice) di “Novas”, periodico della Regione sarda, e con pubblicità nelle televisioni sarde. “Sardi e fratelli d'Italia” scrive Cappellacci. Ma non si tratta, temo, di una constatazione che qualunque indipendentista sottoscriverebbe, circa la fratellanza del popolo sardo con quello italiano, così come con tutti i popoli.Novas”, in sardo e testo a fronte in italiano, e la pubblicità istituzionale (in italiano) “sdoganano” la dottrina della statualità di Francesco Cesare Casula che diventa, così, parte se non della storia patria (a quella sono deputati coloro che da sempre la dileggiano) almeno della autonomia sarda. Cesare Casula ha ripetuto le cose che da sempre dice in un editoriale e in interviste televisive. C'è, insomma, il tanto perché si apra, finalmente, un serio dibattito sulle origini dello Stato italiano e, chi sa?, sulle ragioni della sua crisi. La prima reazione, sprezzante com'è nel suo costume, è di Paolo Maninchedda che definisce “una solennissima minchiata” lateoria, tutta formale e non sociale, culturale, economica, insomma sostanziale”. Essa “è calibrata e cucita intorno al desiderio di legittimare i tanti sardi che hanno usato la Sardegna per far carriera in Italia cosicché la loro carriera assumesse il rango morale di servizio all’Italia generata dai sardi, coem se la Sardegna fosse l’egitto e l’Italia la Terra Promessa”.Se scrive così Maninchedda, che non mi pare professi particolari simpatie per il vetero marxismo, a differenza di altri che oggi sfottono Casula, immagino gli altri. Quelli per i quali la storia non va raccontata per quel che è stata, ma, come nel caso della nauseabonda vulgata risorgimentale, fatta di nascondimenti e enfatizzazioni, per quel che serve: per inventare miti della nazione, per denigrare i vinti chiamandoli “briganti” (ricordate i “banditen” dei nazisti?), e così via mistificando. Del resto, quella che all'inizio ho chiamato franca opposizione alla celebrazione dell'Unità d'Italia è per lo più improntata alla litania della “Italia matrigna”: ci ha tolto questo, non ci ha dato quest'altro, non ci ha risolto quest'altro ancora. L'economicismo trionfante, insomma. Quasi che cessassero le ragioni dell'alterità, del nostro essere “una nazione distinta dalla nazione italiana”, il giorno che da matrigna l'Italia si trasformasse in madre benevola e desse alla Sardegna i soldi che le spettano (magari come fa con il Sud Tirolo, ma lì c'è ben altra classe dirigente), chiudesse un occhio se avvertisse in qualche legge regionale una violazione della Costituzione e riconoscesse la nostra insularità.Come hanno ragione gli operai della Vinyls che hanno srotolato dalla Torre Aragonese di Porto Torres una enorme bandiera italiana: l'Italia sta dimostrandosi una madre benevola e dunque Viva l'Italia. Detto questo, e a scanso di fraintendimenti, la non partecipazione dei sardisti alla cerimonia in Consiglio regionale e insieme ad essa quella di altri consiglieri (ne mancavano venti su ottanta) è una cosa buona: l'assenza di un quinto dei deputati regionali sta, quanto meno, a significare che c'è fastidio nei confronti dei sentimenti imposti. Sotto il palazzo, Sardigna natzione e altri indipendentisti hanno rafforzato il senso di quella assenza. Meglio sarebbe stato se, magari, i sardisti, i tiepidi, gli indipendentisti lo avessero fatto ricordando che 250 anni fa, 100 anni prima del 17 marzo 1861, i Savoia francofoni imposero la lingua italiana in Sardegna. Ma la lingua sarda, si sa, è l'ultimo dei pensieri.

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