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Bene, Nem vagyok a barátod (2009) è l’esatto contrario di tutto ciò.
Da come si può leggere nella sinossi di IMDb, Pálfi ha girato la pellicola in soli 20 giorni e con attori non professionisti (anche se scorrendo il loro curriculum più o meno tutti hanno recitato anche altrove), ma la vera peculiarità è che questo è un film di improvvisazione, nel senso che di pregressi studi a tavolino non dovrebbero essercene stati, né in fase di sceneggiatura, che si è sviluppata dal confronto tra il regista e gli stessi attori a mano mano che il film procedeva, né per quanto concerne il comparto visivo che si affida dogmaticamente a luci naturali, riprese tremolanti e zoomate repentine.
Il risultato è un film perennemente appiccicato alle persone tanto da ricordare al sottoscritto i primi tre lavori di Béla Tarr, il che a dispetto del nome citato non va inteso come un complimento spassionato poiché chi ha visto quel trittico iniziale sa che si tratta di pellicole lontane dagli standard tarriani recenti con intenzioni più (socialmente) ritrattistiche che artistiche; erano, come si suol dire, altri tempi, il muro di Berlino non era ancora caduto e l’Ungheria doveva fare i conti con una realtà politica sicuramente diversa da quella odierna, ne consegue che Tarr si realizzava grazie ad un combustibile sociologico che diveniva anche il suo fiore all’occhiello, mentre per Pálfi no, e il punto è questo: egli fa un film scollato da qualunque indagine/denuncia per sua volontà, ciò è lecito, giusto e quel che volete, ma così facendo non tiene conto dello spettatore che trovandosi alle prese con (forse) un esperimento, è costretto a maneggiare dell’aria fritta e subire con un po’ di noia quello che è il nulla perché già visto in molti altri lavori vicini, data l’impronta corale, al sempre amato Ulrich Seidl.
Il nulla si diceva, magari enfatizzando un poco, tuttavia sfido chiunque a provare interesse verso questo ristretto nugolo di persone calcificate nell’urbanità e mosse come marionette da vari e ordinari tic esistenziali: amori, tradimenti, perversioni all’acqua di rose, dove niente di tutto ciò è capace di scuotere davvero la storia che scorre in un alveo infelicemente arzigogolato dal dosaggio relazionale fra i personaggi, e che si emancipa dalla logicità per seguire una linea parecchio selvaggia.
L’unica certezza che si concretizza a fine visione è che Pálfi, alla luce, tra l’altro, del suo esordio, quel misterioso prodotto che è Hukkle (2002), non è sicuramente questo. Gli abbiamo permesso di divertirsi con I Am Not Your Friend e ok, ora però esigiamo che dia corpo a quanto di buono aveva fatto intravedere per regalarci tanti altri piccoli capolavori di cui sentiamo sempre il bisogno.
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