(pubblicato su FareItaliamag il22 luglio 2011)
Lo spirito di Tito aleggia ancora sulle isole di Brioni. E nel buen retiro istriano del fondatore della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, lunedì 18 luglio, si sono riuniti per un vertice trilaterale informale i presidenti di Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina: per continuare il processo di riconciliazione, per affrontare il contenzioso che ancora li divide (confini, proprietà, rifugiati), per promettersi reciproco sostegno ed assistenza tecnica nel cammino comune verso l’Unione europea, per immaginare reti infrastrutturali – strade, ferrovie, porti, aeroporti – e sottoporre i relativi progetti ai finanziamenti di Bruxelles. “Il principio di solidarietà e sostegno reciproco è il principio basilare sul quale i tre paesi desiderano costruire il loro futuro europeo comune”, così recita la dichiarazione finale; e il padrone di casa croato Ivo Josipovic, incontrando la stampa insieme agli altri presidenti (il serbo Boris Tadic e i tre membri della presidenza bosniaca: Bakir Izetbegovic, Nebojsa Radmanovic and Zeljko Komsic), ha informato che i vertici verranno istituzionalizzati e organizzati in futuro almeno una volta l’anno.
Dopo l’arresto di Mladic e poi proprio ieri dell’ultimo ricercato Goran Hadzic, gli stati balcanici sono davvero pronti a voltar pagina, a seppellire le manipolazioni etnopolitiche del passato per costruire insieme un futuro prospero in seno all’Ue? Queste sono le intenzioni, vedremo i fatti: intanto la Croazia spera di finalizzare la sua adesione nel 2013, mentre la Serbia vuole ottenere quanto prima lo status ufficiale di candidato. Sembra potersi avverare l’auspicio del primo ministro greco Papandreou; che appena eletto, nell’ottobre del 2009, partecipò a sorpresa al summit del Processo di cooperazione dell’Europa sud-orientale (Seecp, nell’acronimo inglese) e manifestò la speranza di potere vedere tutti i paesi balcanici (più la Turchia, in effetti) membri dell’Unione europea per il 2014, nel centenario dell’attentato di Sarajevo che provocò l’inizio della Grande Guerra e la fine dell’Europa degli imperi.
Ma se Papandreou ha espresso degli auspici, è stata la Turchia che – con abilità, energia e pazienza – ha gettato le basi per il riavvicinamento di Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina e per il vertice di lunedì. Su impulso del ministro degli Esteri Davutoglu, in carica dal 1° maggio 2009 dopo essere stato a lungo consigliere pricipale del premier Erdogan, la Turchia ha sfruttato la sua presidenza di turno del Seecp – da giugno 2009 a giugno 2010 – per rilanciarne in grande stile le ambizioni e il funzionamento, come testimonia la dichiarazione finale di Istanbul (23 giugno 2010), nella quale i 12 membri hanno tratteggiato un destino condiviso fatto di pace duratura, di stabilità, di sviluppo economico e sociale – nel pieno rispetto della democrazia e dei diritti umani.
Un destino indissolubile dall’appartenenza europea (in seno all’Ue) ed euro-atlantica (in seno alla Nato); una duplice appartenenza che è diventata per molti più vicina grazie alla mediazione e alle iniziative di Erdogan, del presidente Gul e di Davutoglu. Il capo della diplomazia di Ankara, infatti, rivendica incessantemente l’eredità ideale dell’Impero ottomano – multireligioso e multiculturale, integrato nel’economia globale del tempo e politicamente centrale – ed è stato l’ideatore della formula capace di riannodare i rapporti frantumati – compromessi dalle guerre balcaniche di secessione e dalla proclamazione d’indipendenza del Kosovo – tra Serbia, Bosnia e Croazia: una serie di duplici incontri trilaterali – Turchia, Bosnia, Serbia e Turchia, Bosnia, Croazia – che ha contribuito a neutralizzare alcune delle divergenze più esplosive e a spianare la strada verso la riappacificazione basata su una comune strategia di integrazione regionale. Lo storico vertice di Brioni è il diretto prodotto di quei primi incontri.