Questo post nasce dalle riflessioni conseguenti ad altre speculazioni mentali avvenute intorno ad un altro scritto di qualche giorno fa (Poche Ciance…). Si parlava di jazz come musica essenzialmente non cantata (anche se non è del tutto vero), si discuteva di musica priva di testo cantato, perché di parole ne sono state dette sin troppo e spesso a sproposito. La sola musica, capace di esprimere i più intimi sentimenti senza alcuna mistificazione, forse era una via d’uscita.
Ricordo sempre con grande divertimento quando Pantagruele invita Panurge a non sposarsi (per non correre il pericolo di restarci becco), e lo invita ad interrogare sul punto (quasi divinatorio) un sordo-muto dalla nascita. Un sordo muto è portato come esempio di purezza e di vicinanza alle Divinità che si mostrano per segni.
Questo comunque è quello che pensavo io. Alcuni amici, però, mi facevano presenti le grandi qualità liriche di tanti cantautori. Gli stranieri, come gli italiani, ci si intenda. Tuttavia tendo sempre a voler porre dei distinguo, in questi casi. Dipende da cantautore a cantautore, essendo che non tutti impersonano pirandellianamente sulla terra la maschera di Bob Dylan, bisogna stare attenti e mai affrettarsi a dichiarare tout court: Que viva il cantautorato! Lo dicevo già le scorse volte, non riesco a concepire l’autore solo di splendide poesie che non stia attento alla musica (armonia, melodia, ritmo, etc, etc…). Quelle canzoni tutte troppo uguali, con quel testo costretto e maldestramente appiccicato sopra (non me ne vogliano i fans, ma Guccini non mi è mai andato a genio). Sarò probabilmente condotto nella piazza, alla gogna pubblica, sbeffeggiato e prostrato dinanzi al generale ludibrio, ma vi devo dire che a me non piace troppo neanche Fabrizio De André. Che sia chiaro, lo stimo come uomo e come poeta, ma non come musicista. E quando dico questo, credo in qualche modo di intercettare anche i suoi stessi pensieri. Lui in effetti ha sempre detto di sentirsi deficitario nella conoscenza più tecnicamente musicale e si è sempre dichiarato un grande estimatore di quel geniaccio di Lucio Dalla. Forse fu proprio per questo e da questo che prese il via quella collaborazione storica e miracolosa segnata indelebilmente nel tempo dal disco del concerto con la P.F.M. E finalmente sono arrivato al dunque. Non scriverò il solito post lunghissimo, perché necessitiamo un po’ tutti di silenzio. L’esigenza primaria è l’ascoltare! Per questo invito il lettore a non scoraggiarsi osservando la lunghezza apparente: ho inserito il testo del pezzo che voglio presentarvi. Oggi propongo al lettore di questa rubrica un brano dei P.F.M. Un brano del 1978, apparso su Passpartù, album non troppo noto e appartenente a quella seconda fase più jazzistica della gloriosa band progressive. La traccia in questione si chiama “I Cavalieri del Tavolo Cubico” e racchiude in sé il meglio delle esperienze cantautoriali italiane di quegli anni, con l’abbellimento estetico essenziale di una esecuzione agli strumenti che è semplicemente superba. La formazione è quella storica: ovviamente Franz Di Cioccio, Patrick Djivas al basso, Flavio Premoli alle tastiere e Franco Mussida alle chitarre.
I Cavalieri del Tavolo Cubico (link), inizia – in maniera spiazzante rispetto al titolo rievocante l’epica medievale da loro spesso perseguita in passato – con un elegante tappeto di percussioni subito associato all’andare latin delle entranti tastiere. E in effetti il tavolo è proprio cubico! Sullo stesso filone si mantiene una sincopata ritmica di basso densa e piena, poco dopo si inserisce il cantato:
È scappato per mare, nel deserto, nella foresta era un manichino con del fili dentro la testa.
…e qui (0.37) un raffinato fraseggio della chitarra, nasale e jazzy, chiarisce l’impronta del brano. Di Cioccio ricomincia a cantare (0.48), ormai contrappuntato ad ogni ripresa di fiato dalla splendida chitarra di Mussida:
È scappato via, s’è infilato nella palude, non è ancora uscito, dalla rete che lo rinchiude.
1.00 Mussida sale una scala che ha del suadente. Una tecnica musicale invidiabile ed un creatività colta che negli anni (a quei tempi da poco passati) lo ha portato alla ribalta dei palcoscenici internazionali.
Non sei ancora fuori, manichino che non ha faccia, quattro cavalieri ti son dietro ti dan la caccia
L’anima prog viene fuori propri in momenti di così alto lirismo musicale (1.21).
Ed ecco che arriva il funkeggiante ritornello:
Giù, più giù, più giù, ti butti giù, la china è ripida. Giù, più giù, più giù, chissà laggiù, se c’è via libera.
L’intermezzo chitarristico (1.52) è in linea con il miglior rock internazionale di quel momento (vagamente santaniano, ma forse più per via delle influenze di Coltrane e della musica latin).
Chi ti segue da presso è vestito tutto di rosso, urla come un pazzo e cavalca su un grande rospo
Chi gli sta di lato è vestito tutto di giallo, sembra lì in attesa e cavalca su uno sciacallo.
Dopo una fuga funky-prog del tutto inedita nel panorama italiano, il pezzo muta leggermente registro, come da buon copione progressiveggiante e la voce ci regala forse i versi più belli di questo magnifico brano (2.42):
Tu te ne vai per la strada più comoda, dove gli eroi non cavalcano mai.
Dove la caccia diventa più stupida e dove il corpo tuo riparerai.
A 2.59 l’ennesimo magniloquente intermezzo che avrebbe meritato nuovamente quei palcoscenici internazionali di cui prima. Il brano trasuda onirica e visionaria potenza. Da 3.08 comincia l’assolo di chitarra. Sembra che Mussida suoni degli elastici. Negli anni la sua tecnica è migliorata e dal quasi heavy di Celebration (è festa) adesso è arrivato dove già aveva mostrato di voler giungere. Certo non sono gli avveniristici King Crimson, ma i P.F.M. sono certamente la via più gradevole (quasi alla Genesis, tanto per fare un assurdo) per poter avvicinare prog e jazz. Forse neanche i Caravan sono mai riusciti in questo difficile intento. Intanto sopra l’assolo di chitarra, Di Cioccio ha ripreso a verseggiare (3.15):
Tu te ne vai manichino di plastica, ridi, non sai, non capisci perché
i cavalieri del tavolo cubico passano il giorno alla caccia di te
3.40, dopo un sintetico momento di stacco (sei secondi), il pezzo ritorna al tema iniziale ed il testo è sempre più poesia (ma di quella vigorosa e ironica, senza alcuna apparizione di passioni deboli):
Guarda là più avanti, guarda c’è il cavaliere bianco, questa volta arriva su una nuvola radioattiva.
Guarda giù al sentiero, guarda c’è il cavaliere nero, che ti aspetta fermo sulla groppa d’un grattacielo
Giù, più giù, più giù, ritorna giù, per la via comoda
giù, più giù, più giù, scendi finché è ancora libera.
Saluti da Celestropoli