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“I cento fratelli” di Donald Antrim

Creato il 02 settembre 2011 da Sulromanzo

I cento fratelliI cento fratelli è il secondo libro di Donald Antrim che leggo. Il primo è stato Il verificazionista, testo per cui l'aggettivo “strepitoso” è certamente riduttivo. Ma veniamo a noi: la storia del romanzo in esame è (cifra distintiva di Antrim) quasi ridicola, nel suo spregiudicato accedere al surreale. Cento fratelli, tutti maschi, si riuniscono nella sala principale di una biblioteca all'interno di una villa antica e diroccata; lo scopo è ritrovare l'urna con le ceneri del padre, smarrita. Un consiglio, spassionato come sempre: se state pensando «ma non è realistico», potete anche evitare di acquistare il volume riedito da minimum fax nel 2011 (la prima edizione risale al 2004), tradotto da Matteo Colombo e con una (bella) prefazione di Jonathan Franzen. E, mentre che ci siete, potete pure abbandonare la lettura di quest'articolo. Nessuno ve ne farà una colpa. Non è forse Antrim uno di quegli autori che non è indispensabile leggere (o far credere di aver letto)?

Il fatto è che Antrim disdegna il naturalismo e, per certi versi, anche la realtà: la sua è una storia che sotto la forma di un divertissement o di quello che potrei definire “un erudito stupidario”, ci schianta contro la tragedia di essere nati. Doug, la voce narrante, come del resto tutta la vicenda, sono quasi del tutto scollegati dalla dimensione spazio-temporale. Tutto quel che sappiamo è che ci si trova in una biblioteca mastodontica, per un settore della quale Antrim dice: «Serpeggia una certa depravazione sifilitica tra questi ex libris all'acquaforte aventi per protagonisti catarrosi aristocratici che si accoppiano alla pecorina senza togliersi il cappello». Il soffitto è irrimediabilmente crepato; è sera, e si lascia intendere che, con l'avanzare del buio, gli eventi, in un qualche modo insondabile, precipiteranno; oltre le finestre esseri non meglio definiti, forse umani, «che si stringono gli uni agli altri per riscaldarsi».

Questi ammassi di carne e ossa, che Antrim fa danzare tristemente sul suo palcoscenico instabile, sono uomini sorridenti sull'orlo di un baratro profondissimo, tanto che Doug può affermare: «ho notato che in me sortisce un effetto rilassante, di quando in quando, produrmi in un gesto di degradazione, entrando così davvero in contatto con il sentimento della solitudine e della vergogna».

La narrazione alterna slanci di rappresentazione vitalistica a chiusure intimistiche, la maggior parte delle volte a sfondo ossessivo/depressivo. E, in questo quadro meravigliosamente desolante, privo di consolazioni, fatto da odori d'uomini, litigi istantanei, alleanze, aggressioni fisiche e abbracci, inseguimenti, umiliazioni, intimidazioni, la prerogativa di I cento fratelli, come dice Franzen nell'Introduzione, «deriva dalla sua volontà di abbracciare, e perfino celebrare, una cupa realtà di fatto: che la vita dell'individuo consiste, in definitiva, in una corsa sempre più veloce verso il decadimento e la morte». Se il romanzo inizia con una tassonomia, termina, infatti, con l'espressione della condizione di solitudine di noi tutti, nella fine.

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