Quando si va per cantine e ci si imbatte in uno come Mario Zanusso bisogna soffermarsi e fare una riflessione. Perché non ci si trova davanti a un viticoltore, a un uomo di cantina, a un vignaiolo vero, ma prima di tutto si è a contatto con un custode delle vigne. Un custode su cui incombe il dovere morale di preservare quel patrimonio di vecchie vigne impressionanti che albergano nei terreni de I Clivi. Le vedi lungo i filari mentre sali la strada verso la cantina, e ti sembrano quasi persone, come anziani stoici, con la schiena piegata e le braccia nerborute che sfidano il tempo e in ogni nodo della loro figura nascondono storie ed esperienze, tatuate dagli anni.
E’ tra le prime cose che Mario, giustamente, sottolinea, quando racconta dei suoi vini: “viene da vigne di oltre 50 anni….le piante di Malvasia sono di oltre 80 anni…” e sembra quasi che nei vini si stratifichino le sensazioni come se fossero accumulate dalle viti nel proprio corredo genetico, e riportate nelle uve che producono.
La missione di custodire questo territorio unico, posto su suoli di Flysch di Cormons (marne stratificate e drenanti, di sedimenti marini e arenarie) e protetti da selvagge fasce boschive. I vigneti, sembra quasi banale dirlo, sono condotti in regime biologico, con cura quotidiana del vigneto per prevenire le patologie al primo segno di allarme palesato dalle piante. Rigogliosa la vegetazione mantenuta, sia sulle viti, con minime cimature, sia sul terreno, dove l’inerbimento è di casa, il tutto facilitato dalle basse densità di impianto, dovute principalmente alle fallanze lasciate dal tempo lungo i filari. Da ricordare che qui le precipitazioni piovose sono tra le più alte d’Europa, e le malattie hanno terreno fertile per proliferare, specie la peronospora, più virulenta su merlot e verduzzo, e la cura del vigneto deve essere attenta e costante per salvaguardarne la salute.
Le scelte sono oculate anche in cantina, dove si lavorano i mosti prettamente in acciaio, e dal 2007 si opera solo con fermentazioni spontanee, che si innescano senza bisogno di piede, dopo la pressatura soffice, a grappolo intero. Le fermentazioni avanzano controllando le temperature solo in modo che non superino i 22°C, condizione spesso facilitata dalle basse temperature notturne. La chiarifica avviene naturalmente per decantazione, mentre a fine fermentazione si attendono 10 giorni per lasciare sedimentare i fondi e separarli, per trasferirli in legno, dove perderanno la loro proprietà riducente, e una volta ripuliti e ricchi solo di fecce fini vengono rimessi in acciaio col resto della massa, che affina con esse per un mese, con ripetuti battonage.


In occasione di questa visita Mario decide di regalarci qualche emozione inconsueta, evitando i soliti assaggi delle ultime annate, e ci mette in tavola quindi un Galea 2001 e un Galea 2002, ponendo il confronto sul tema delle annate, opponendo la piovosa 2002 alla calda 2001.
All’epoca non separava tutti i vitigni come scelse di fare dal 2009, ma piuttosto realizzavano due etichette, Galea e Brazan, dai COF la prima, dal Collio la seconda. Siamo davanti a vini dove domina in percentuale il friulano, con quote di chardonnay, sauvignon e verduzzo.

Galea 2001. Oro pieno e vivo, naso più sottile e mediterraneo, di rosmarino e lavanda, pera fresca, fiori bianchi, miele, orzo, ciottoli e resine. Al palato ci sfiora un ricordo quasi tannico, un’acidità fine e penetrante che batte il tempo per una melodia elegante, con lunghi ritorni minerali, di cereale e fiori. Sorprendente per equilibrio e dinamicità gustativa, incalzante nel gusto, invita il ritorno al calice.

PS: continua così!

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