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I Clivi, antiche radici tra Collio e Colli Orientali

Da Iltaccuvino

20151001_153604Quando si va per cantine e ci si imbatte in uno come Mario Zanusso bisogna soffermarsi e fare una riflessione. Perché non ci si trova davanti a un viticoltore, a un uomo di cantina, a un vignaiolo vero, ma prima di tutto si è a contatto con un custode delle vigne. Un custode su cui incombe il dovere morale di preservare quel patrimonio di vecchie vigne impressionanti che albergano nei terreni de I Clivi. Le vedi lungo i filari mentre sali la strada verso la cantina, e ti sembrano quasi persone, come anziani stoici, con la schiena piegata e le braccia nerborute che sfidano il tempo e in ogni nodo della loro figura nascondono storie ed esperienze, tatuate dagli anni.

E’ tra le prime cose che Mario, giustamente, sottolinea, quando racconta dei suoi vini: “viene da vigne di oltre 50 anni….le piante di Malvasia sono di oltre 80 anni…” e sembra quasi che nei vini si stratifichino le sensazioni come se fossero accumulate dalle viti nel proprio corredo genetico, e riportate nelle uve che producono.

La missione di custodire questo territorio unico, posto su suoli di Flysch di Cormons (marne stratificate e drenanti, di sedimenti marini e arenarie) e protetti da selvagge fasce boschive. I vigneti, sembra quasi banale dirlo, sono condotti in regime biologico, con cura quotidiana del vigneto per prevenire le patologie al primo segno di allarme palesato dalle piante. Rigogliosa la vegetazione mantenuta, sia sulle viti, con minime cimature, sia sul terreno, dove l’inerbimento è di casa, il tutto facilitato dalle basse densità di impianto, dovute principalmente alle fallanze lasciate dal tempo lungo i filari. Da ricordare che qui le precipitazioni piovose sono tra le più alte d’Europa, e le malattie hanno terreno fertile per proliferare, specie la peronospora, più virulenta su merlot e verduzzo, e la cura del vigneto deve essere attenta e costante per salvaguardarne la salute.

Le scelte sono oculate anche in cantina, dove si lavorano i mosti prettamente in acciaio, e dal 2007 si opera solo con fermentazioni spontanee, che si innescano senza bisogno di piede, dopo la pressatura soffice, a grappolo intero. Le fermentazioni avanzano controllando le temperature solo in modo che non superino i 22°C, condizione spesso facilitata dalle basse temperature notturne. La chiarifica avviene naturalmente per decantazione, mentre a fine fermentazione si attendono 10 giorni per lasciare sedimentare i fondi e separarli, per trasferirli in legno, dove perderanno la loro proprietà riducente, e una volta ripuliti e ricchi solo di fecce fini vengono rimessi in acciaio col resto della massa, che affina con esse per un mese, con ripetuti battonage.

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La cantina può emozionare per il contenuto, ma le sensazioni più belle si provano passeggiando tra i filari, ammirando queste piante senza tempo, veterane del vino friulano. Le vigne de I Clivi si dipanano per 8 ettari attorno alla cantina, sulla collina di Gramogliano (Colli Orientali del Friuli), cui si aggiungono altri 4 ettari vitati su Monte Quarin a Brazzano (Collio Goriziano). Su quest’ultimo vivono vigne ottuagenarie di friulano (tocai giallo) e malvasia, mentre a Gramogliano si trovano principalmente friulano, verduzzo, ribolla gialla e qualche pianta di sauvignon e chardonnay, oltre a minuti filari di merlot, di cui al momento della nostra visita, a vendemmia conclusa, rimanevano ancora pochi grappoli mantenuti di proposito per valutare la tenuta in pianta e l’avanzamento della maturazione.

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I vini de I Clivi li ho incontrati nelle manifestazioni più belle, e ne sono rimasto sempre entusiasta, ogni volta sorpreso da espressioni vere e coerenti dei vitigni d’origine, e sottolineo la bontà incredibile del suo merlot, un vero fuoriclasse, il cui unico limite è il basso numero di bottiglie prodotte.

In occasione di questa visita Mario decide di regalarci qualche emozione inconsueta, evitando i soliti assaggi delle ultime annate, e ci mette in tavola quindi un Galea 2001 e un Galea 2002, ponendo il confronto sul tema delle annate, opponendo la piovosa 2002 alla calda 2001.

All’epoca non separava tutti i vitigni come scelse di fare dal 2009, ma piuttosto realizzavano due etichette, Galea e Brazan, dai COF la prima, dal Collio la seconda. Siamo davanti a vini dove domina in percentuale il friulano, con quote di chardonnay, sauvignon e verduzzo.

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Galea 2002. Pera e zenzero, cannella, pesca gialla e crema, con una nota vegetale matura, di zucchina. La bocca è piena, fresca ma profonda, con morbidezze e ossidazioni gentili, mentre tornano note di pera william matura, mandorla, albicocca, e un susseguirsi di suggestioni da fresche note di menta e salvia (emblematiche del verduzzo), a chiusure di cenere e castagna. Un vino che si allarga placido, sferico, smussato anche dallo svolgimento della fermentazione mallolattica, pratica mantenuta fino al 2008, per poi essere riutilizzata solo sulla malvasia nelle controverse annate 2013 e 2014, quando le acidità più dure erano da smussare.

Galea 2001. Oro pieno e vivo, naso più sottile e mediterraneo, di rosmarino e lavanda, pera fresca, fiori bianchi, miele, orzo, ciottoli e resine. Al palato ci sfiora un ricordo quasi tannico, un’acidità fine e penetrante che batte il tempo per una melodia elegante, con lunghi ritorni minerali, di cereale e fiori. Sorprendente per equilibrio e dinamicità gustativa, incalzante nel gusto, invita il ritorno al calice.

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Ci vuole stimolare al confronto e al ragionamento il nostro custode delle vecchie vigne friulane, e ci apre un Brazan 2001 140 mesi, versione del cru goriziano mantenuta in acciaio per 11 anni sulle fecce. I suoi toni sono di oro verde brillante, il suo naso ancora irrequieto e intenso, con incipit su toni sulfurei e terrosi, poi si apre tra orzo e conchiglia, poi frutti autunnali di nespole, cotogne e miele scuro. Al palato una cascata di freschezza, uno schiocco sapido al palato, ce rimane asciutto con bella chiusura di frutto, tra ricordi di zenzero fresco, pasticceria alla crema con toni di agrume e liquirizia. Il vino sembra essersi spogliato degli aromi primari per mostrare il suo scheletro, la sua componete minerale più profondo, con l’acidità come nervi a fior di pelle, e le evoluzioni che raggiungono note di castagna, terra, macchia mediterranea e ricordi iodati. Un peso piuma al palato, ma di stratificazione immensa. Vino di giovanilità primaverile ma sapori di mare e di autunno, con un finale raffinatissimo, che rimanda ai frutti di mare. Spettacolo liquido, ma è solo questione di gusti personali la scelta tra questi 3 esempi di purezza, che raccontano una storia di vecchie viti, e della vita di chi si è innamorato di esse e si è fatto ambasciatore del loro frutto, tramutandolo in nettare. Grazie Mario. Punto.

PS: continua così!

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Tagged: Brazan, Friulano, Galea, malvasia, Ribolla, tocai, vecchie viti, Verduzzo

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