Che il sistema politico faccia la cresta sul conto della spesa lo sappiamo benissimo fin dal ’92, ma dopo una breve indignazione lo abbiamo accettato purché una parte di quella cresta entrasse nelle nostre tasche sotto forma di una qualche beneficio diretto o indiretto. Quieto vivere appunto anche per noi, fino a che le vacche magre non hanno rimescolato le carte e fatto capire che alla fine anche la cresta è oggetto di furto tra individui, categorie, clan, sistemi, dandoci la consapevolezza che l’iniquità non è solo una parola astratta.
E tuttavia in tutto questo tempo perduto sono state rubate molte cose assai più importanti della mazzetta passata sottobanco: il futuro, i diritti, un’idea dello stato e della convivenza, il welfare. E i ladri sono proprio quelli che pensavamo ci avrebbero difeso dai banditi di strada. Il Paese è allo sfascio, tutti lo vedono, lo avvertono, lo contano in busta paga o nella mancia del lavoro precario, ma le cure che vengono prescritte sono le stesse che hanno provocato la malattia. Ma è come se si stesse rattrappendo il cervello del Paese, abbandonato allo sbavare pavloviano di classi dirigenti incapaci di rinnovarsi e di rituali appelli a una diversità auspicata finché irrealizzabile.
E in mezzo a questa impotenza a manovrare perché la nave non affondi sorprende che sfugga il senso di un disegno reazionario grottescamente fatto proprio dalla sinistra. L’altro giorno in un post sulla risibile feticistica europea (qui) avevo riportato una frase clou di Monti, cui nessuno ha naturalmente fatto caso: ”Siamo a tal punto dominati dal riflesso nazionale da sentire più vicini individui ideologicamente contrapposti a noi, ma che vivono nel nostro Paese di origine”. Nessun raffinato intellettuale della sinistra nominale ha notato come questa uscita rassomiglia in modo inquietante al pensiero delle classi nobiliari dell’ ancien regime. Nelle “Origini del totalitarismo” Hannah Arendt scrive che gli appartenenti alla classe dominante “non si consideravano rappresentanti della nazione, ma come una casta con molti più contatti con i loro eguali di altri popoli, che non con i loro compatrioti”. E appena l’anno scorso un membro dello staff repubblicano di Romney, Mike Lofgren, ha sostenuto che “le élite ricche di questo paese hanno molto più in comune con le loro controparti a Londra, Parigi, e Tokyo che con i loro concittadini americani … i ricchi si scollegano dalla vita civile della nazione e da ogni preoccupazione per il suo benessere, se non come luogo dove fare bottino”.
Ecco perché mi sento raggricciare quando quella tenue sinistra residuale vede in Monti una soluzione: perché non sembrano avere la minima idea di chi sia il personaggio e del mondo a cui fa riferimento, a meno che essa , naturalmente, non condivida l’idea di una società costruita come la corte di Versailles, anche una volta fatta la tara dell’ingrandimento del mondo che si è verificato. Oppure siano ormai talmente lontano dalla capacità di pensare che prendano queste dichiarazioni come il segnale di un benefico cosmopolitismo da monsieur Hulot in vacanza. E’ anche per questo che l’inadeguatezza di una campagna elettorale si trasforma da certe parti in una drammatica inettitudine. Come pettinare la bambola in Casa di Bambola: una tragedia.