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i cuori nella pallavolo

Creato il 07 maggio 2014 da Plus1gmt

Chiedendogli l’informazione, nessuno si accorge che la sua camicia ha lo stesso identico colore del cielo in quel momento, una tonalità di azzurro isterico che si vede che si sta trattenendo dal versare giù quantità esagerate di acqua, come quelle persone che passano dal non-pianto al pianto impassibili, cambiano solo perché vedi i liquidi tracimare dagli occhi e scorrere paralleli in gocce enormi ai lati del viso. Comunque non ci sono bar nei pressi e bisogna arrivare sin laggiù e poi a sinistra, c’è la piazza della chiesa e lì addirittura ce ne sono tre. Chissà la concorrenza per accaparrarsi quella manciata di abitanti. Qualcuno vede dei ragazzi davanti a quello con le luci colorate dentro, che poi sono quelle dei video poker, e decide che si andrà lì proprio perché ci sono dei giovani. Qualcun altro non fa in tempo a far notare che, per come vanno le cose in genere, dai giovani è meglio tenersi alla larga e sarebbe meglio andare in quello degli anziani con le carte e il bianco macchiato. Dentro, due rumeni al bancone bevono il caffè corretto con la grappa e c’è la tv accesa su uno dei tanti rotocalchi pomeridiani.

Una signora di quelle che si vede che hanno voglia di parlare chiede alla delegazione di “foresti” se c’è una partita, loro sono abituati a essere invasi da supporter che poi, per le squadre giovanili anche se titolate, sono genitori, parenti e per le più grandicelle i fidanzati. Il gruppo di genitori le fa notare che no, anzi sì c’è un incontro ma è un’amichevole tra ragazzine dalla prima media in giù. In realtà lo scopo della gita è un altro, avere un’idea di come funzionano le cose a livello professionistico. Come si allena una squadra giovanile ma proiettata verso i grandi risultati e formata da ragazze che arrivano da tutta Italia per diventare campionesse di volley.

Le giocatrici arrivano infatti mentre la partitella volge al termine. La palestra si riempie così di aliene. Una quarantina di atlete tra i 13 e i 18 anni, tutte più alte di me che supero l’uno e ottantacinque, seguite da una decina di allenatori coordinati dal direttore sportivo, un ex azzurro di qualche tempo fa. Le ragazze si dividono tra i settori del campo, in coppie, a tre o a gruppetti, e senza perdere tempo danno il via agli esercizi sui fondamentali. Un dirigente racconta ai visitatori che c’è una forte richiesta alla quale la società risponde con una altrettanto accurata selezione. Le prescelte si trasferiscono lì, che non è nemmeno un comune ma a malapena un borgo con dignità di frazione, a mettere a disposizione la loro adolescenza alla disciplina dello sport.

L’atmosfera si fa più calda come la temperatura vista l’elevata concentrazione di gente che si dà da fare a correre su è giù, gettarsi a terra, schiacciare palloni con una violenza inaudita, ricevere, alzare, avanti e indietro, avanti e indietro. Gli allenatori, che sono tutti ragazzoni con una stazza spropositata, si aggirano per controllare se le atlete eseguono alla lettera gli ordini impartiti dal direttore sportivo. Quando notano qualcosa che non va immediatamente si pongono sul registro da Full Metal Jacket. “Fai un bagher di merda, te ne rendi conto?”. “Chi vedo che non sta giù con le gambe è fuori”. Due compagne sono soprese da uno degli allenatori, che mi ricorda gli istruttori all’accademia sottufficiali, a scambiarsi un commento non inerente l’allenamento e vengono immediatamente mandate a bordo a campo a fare una sequenza infinita di piegamenti sulle gambe. La cosa attira l’attenzione del direttore sportivo, che invece potrebbe essere il tenente colonnello, quello di Palla di Lardo per intenderci, che si reca immediatamente sul posto per umiliare ulteriormente le ragazze negligenti. “Non ce ne facciamo niente di due così, abbiamo il vivaio pieno di ragazze più serie”. Appena poi si avvia verso il centro del campo, cala il silenzio perché tutte devono ascoltare la descrizione dell’esercizio successivo.

Le ragazze si riuniscono in gruppi di sei e danno vita a un complicatissimo pattern di movimenti, palleggi e schiacciate con ritorno, il tutto orchestrato da uno degli coordinatori. Le ragazze devono stare attente perché se una sbaglia mette nei guai le compagne. Chi manca una ricezione viene condotta dinanzi alle altre e deve rimanere in piedi mentre le giocatrici, a terra, partono con una serie di svariate decine di flessioni. L’allenatore infierisce sulla ragazza che ha sbagliato. “Vedi? Per colpa tua le tue compagne di squadra sono state punite”. E poi, rivolgendosi alle ragazze a terra, chiede loro – retoricamente – che senso ha impegnarsi a prendere una palla per una compagna come quella che non si impegna a prenderla per loro.

Prima di congedarci, il dirigente, uno degli ideatori di quella follia, mi conferma che le atlete si sottopongono a quel regime ogni giorno, per più di due ore. Io penso a come ci si possa sentire così giovani, privati dell’essenziale, senza nessun conforto affettivo in quel buco di culo dove appena finisce il freddo inizia la stagione delle zanzare. Magari l’idea di mandare le figlie in quell’inferno è stata pure dei loro genitori, come se crescere in condizioni normali non imponesse già di per sé una adeguata dose di pressione. Mi chiedo poi perché l’eccellenza, nello sport come nell’arte o nel lavoro e in tutto, sia così strettamente legata al sacrificio e a quell’abnegazione volta al negativo. Cioè, perché deve essere per forza lo stress, e non la serenità, a consentire a qualcuno di dimostrare il proprio valore.



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