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I dannati della cappella dei magi e… il mazzo dei tarocchi

Creato il 09 dicembre 2015 da Salone Del Lutto @salonedellutto

Poche settimane fa sono stata a Bologna. La mission si divideva tra due cose, la serata Decadence a cui volevo partecipare da tempo, e la mostra su Brueghel a Palazzo Albergati. La notte, e il pomeriggio del giorno seguente. In mattinata, ho visitato per la prima volta il duomo della città, la basilica di San Petronio. E l’ho fatto con un obiettivo preciso. Nonostante l’imponenza dell’edificio – è la sesta chiesa più grande d’Europa – e la ricchezza dei decori, a me non interessava nient’altro se non una cappella affrescata, la cappella Bolognini o cappella dei Magi, sulla sinistra della navata. Nello specifico, all’interno della cappella, non mi interessava nient’altro se non la raffigurazione del Giudizio Universale, con il paradiso e un inferno dominato da un gigantesco Lucifero, in cui compare il profeta Maometto, punito fra gli eretici e, ancora – cosa che più di altre ha colpito la mia curiosità –, c’è qualche interessante reminiscenza del gioco dei tarocchi.

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Gli affreschi delle pareti furono realizzati dal pittore Giovanni da Modena (1379-1455) seguendo le indicazioni che il Bolognini aveva lasciato nel suo testamento nel 1408. Lo schema di rappresentazione del mondo degli inferi si ispira alla Divina commedia, dove le anime sono punite secondo la legge del contrappasso. Il suo inferno può essere visto come un grande condominio, fatto di spazi abbastanza “vivibili”, urbani, in cui ogni dannato è come se avesse a disposizione perlomeno un monolocale dotato di aria condizionata e riscaldamento centralizzati, secondo i casi. Il suo è un inferno a gironi, a piani, dove le colpe e le corrispondenti pene sono graduate dalle meno alle più gravi. Al suo interno, un confine marcato ed evidente, segnato dalle mura ferrigne della città di Dite, separa i colpevoli di «incontenenza», cioè quelli che l’han fatta fuori dal vaso in senso figurato, eccedendo nelle proprie passioni, dai colpevoli di «malizia», ossia la frode, e di «matta bestialitade», ossia la violenza. Ecco allora una sfilata, composta, di eretici, tiranni, omicidi, predoni, suicidi e scialacquatori, bestemmiatori, sodomiti, usurai, ruffiani, seduttori e adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti e via andando fino ai traditori.

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Giovanni da Modena segue appunto lo schema dantesco, dividendo i colpevoli fra coloro che hanno peccato contro Dio – scismatici, idolatri, eretici – e gli incontinenti, colpevoli dei vizi capitali. Ma soffermiamoci su alcuni elementi specifici, che più di altri hanno attratto la mia attenzione. Senz’altro il primo di essi è il padrone di casa, un gigantesco Lucifero gastrocefalo le cui zampe pelose sono fissate alla roccia infernale da spesse catene. Lucifero ha due volti e due bocche, una delle quali collocata all’altezza dei genitali. Da ognuna di esse spunta un dannato, il primo dalla vita in giù e il secondo dalla vita in su. La sua raffigurazione, per chi li ha presenti, ricorda da vicino l’arcano XV del mazzo dei tarocchi marsigliesi: il diavolo di facce ne ha addirittura quattro – due complete di tutto, la prima in corrispondenza del vero volto e la seconda del ventre; due composte di soli occhi, sui seni e sulle ginocchia. Certo, rispetto al diavolo raffigurato dal pittore, l’arcano XV ha un aspetto più giocoso, quasi simpatico, col suo evidente strabismo e la lingua penzoloni, comunque le somiglianze sono notevoli.

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I punti di contatto coi tarocchi diventano addirittura impressionanti se si guarda alla destra di Lucifero, poco più in alto di Maometto il cui corpo giace solitario ed enorme sopra una roccia. Lì, ci sono due dannati appesi per un piede a un albero, uno di fronte, l’altro di schiena, entrambi con la gamba libera ripiegata ad angolo retto sopra il ginocchio a disegnare una sorta di 4. A sinistra del primo e a destra del secondo una scritta ne dichiara il peccato: «ido/latria». Una seconda scritta, fra i loro corpi, recita «ninusrex» e identifica l’idolatra per eccellenza, il re Nino, fondatore di Ninive, la città in cui più di ogni altra si consumavano riti idolatrici.

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In questo caso, è all’arcano XII che dobbiamo rivolgerci, l’Appeso. A differenza dei due dannati, non è nudo, ma ha una ricca veste in cui spiccano bottoni particolari che potrebbero simboleggiare le sephirot della tradizione cabalistica. La somiglianza è pressoché totale se, invece, si osserva con attenzione la posizione. L’appeso ha una gamba piegata dietro l’altra per restare meglio immobile. Le sue mani, simbolo della capacità di agire, sono incrociate dietro la schiena. L’appeso non fa, non sceglie, non decide. Secondo l’interpretazione di Alejandro Jodorowsky è proprio questa l’essenza della carta: l’immobilità, l’attesa, la sospensione, il riposo, la meditazione, l’accumulo di energie, ma anche il ribaltamento di prospettiva e dello sguardo, che ci invita a cambiare il punto di vista sulla vita. È questo quel che Calvino fa dire al proprio appeso: «Lasciatemi così, ho fatto tutto il giro è ho capito. Il mondo si legge all’incontrario. Tutto è chiaro». Oswald Wirth, invece, ne mette in luce il grandissimo potere occulto e spirituale, l’influenza psichica irresistibile e il potere di far sentire a distanza le sue aspirazioni, il suo pensiero e i suoi sentimenti. Niente di tutto questo in Giovanni da Modena, nel quale i due appesi non sono lì per meditare ma per essere puniti, per scontare il loro peccato per l’eternità. Siamo peccatori, idolatri, o abbiamo capito tutto? Io non lo so. Ma davanti alla cappella dei Magi, o a un mazzo di tarocchi, mi sembra di capire meglio, comunque.

di Silvia Ceriani

Per andare più a fondo:
Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, 1973
Oswald Wirth, I tarocchi, 1973
Andrea Vitali, Il principe dei tarocchi Francesco Antelminelli Castracani Fibbia, 2013
Alejandro Jodorowsky, La via dei tarocchi, 2004


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