Le affermazioni trancianti del dottor Wertham sulla (presunta) omosessualità di Batman e Robin, forse oggi, suonano più incredibili di quanto non accadesse alla metà degli anni cinquanta negli Stati Uniti. In coincidenza con simili prese di posizione, viene varato il famigerato “Comics code” che – per diversi decenni – vieterà al fumetto popolare a stelle e strisce di mettere in scena rappresentazioni sessuali di qualsiasi genere, etero ancor prima che omo, che non siano benedette dal matrimonio.
Lo Spazio rosa
È lì, nell’impossibilità di rappresentare una scena d’amore, per esempio, tra Bruce Wayne e Barbara Gordon, che alligna la possibilità di caricare di valenze ambigue la vignetta in cui lo stesso Bruce mette a nanna l’imberbe Dick. È lì, tra ciò che vediamo e ciò che ognuno di noi può immaginare come vuole, che lo spazio bianco tra le vignette si apostrofa di rosa. Ed ecco perché, malgrado gli autori nel tempo abbiano cercato di “addomesticare” la fabula di Gotham inserendo figure femminili a corredo, quali Bat-girl e la zia Harriett, la sovrainterpretazione ha continuato a perseguitare l’ambiguo duo. Gli aggiustamenti posticci fanno a pugni (scusate il gioco di parole) con la natura d’azione della coppia Batman/Robin. Lo chiarisce bene Frank Miller, forse il cartoonist che ha meglio raccontato le sfumature e le contraddizioni del mito fumettistico dell’Uomo Pipistrello:
“Batman non è gay. Le sue necessità sessuali sono così sublimate dalla lotta al crimine che non c’è spazio per nessun’altra attività emozionale. Notate quanto siano insipide le storie in cui Batman ha una fidanzata o relazioni romantiche. Non perché Batman sia gay, ma è perché è patologicamente borderline…”
Chiamami Ismaele
Nondimeno, lo stesso Miller ha giocato nelle sue storie di Batman con la sovrainterpretazione sessuale della relazione. Questo perché l’amicizia virile tra i due co-protagonisti si fonda in effetti su una complicità non dissimile da quella che lega due innamorati in una love-story. Ovviamente, Bruce e Dick non sono Romeo e Giulietta, ma una mutualità profonda ed esclusiva accomuna i due tipi di relazione “di coppia”.
Il legame amicale tra Batman e il suo sidekick eredita, in questo senso, tratti che provengono dall’epica antica (Gilgamesh ed Enkidu, Achille e Patroclo, etc.) e che permeano tutta la storia della letteratura d’avventura. Si pensi a Queequeg e Ismaele nel Moby Dick di Melville: consonanza che è lo stesso Tim Drake, uno dei diversi Robin succedutisi accanto a Bruce Wayne, a richiamare ironicamente in una delle storie:
“Se non vuoi chiamarmi Robin, allora chiamami Ismaele”
Più che (s)parlare di omosessualità, sarebbe più corretto quindi utilizzare il termine “omosocialità” che riconduce la relazione affettiva a una sorta di topos letterario: il “parsifalismo”.
Forever Jung
Bruce Wayne accoglie sotto la sua ala (di pipistrello) Dick Grayson, quando il ragazzino ha appena tredici anni. Nel tempo, come scrive Mark Cotta Vaz, tra i due maturerà un profondo legame di fratellanza :
“C’è un’intimità spirituale forgiata dalle innumerevoli battaglie combattute fianco a fianco. Ma Batman è anche un mentore, un protettore e una figura patriarcale.”
Il richiamo agli archetipi spiega l’asimmetrico status narrativo dell’amicizia virile tra l’eroe “senex” (padre, mentore, adulto) e il pupillo “puer” (curioso, impulsivo, incostante), un legame che Umberto Eco è stato tra i primi studiosi a definire “parsifalismo”. Come Parsifal, prode guerriero, viene accolto nell’esclusivo consesso maschile dei cavalieri della Tavola rotonda, così il giovane Robin viene introdotto dal Cavaliere oscuro in un universo esclusivamente maschile. Nella Wayne Manor come nella Bat-caverna, le figure che contano sono uomini: da Alfred e Gordon, passando per la selva di disturbati nemici del dinamico duo. In questo contesto omosociale, la relazione tra i due assume un senso morale preciso, come ci ricorda il filosofo Carsten Fogh Nielsen:
“Batman non insegna a Robin solo certe abilità, come usare il Batrang o come disarmare un rapinatore. Tra le sue tante azioni, Batman trasferisce a Robin determinate norme e indirizzi morali.”
L’eroe non si limita ad allenare il pupillo all’azione, ma gli trasferisce i valori per cui vale la pena agire ed è attraverso quest’ottica che possiamo leggere l’evoluzione matura del primo Robin, Richard “Dick” Grayson.
Nel nome del padre
Alla fine degli anni Sessanta, Dick Grayson/Robin vantava ormai oltre trenta primavere editoriali e qualcuno alla DC Comics si doveva essere reso conto dell’assoluta incongruità di un co-protagonista, costretto sempre al ruolo di “mai cresciuto”. In questo senso, l’allontanamento di Dick dalla Wayne Manor per frequentare finalmente il college (1969), permetteva, da un lato, di recuperare nelle storie di Batman i toni cupi delle origini, dopo gli eccessi “camp” delle stagioni precedenti e, dall’altro, di far uscire Robin dal limbo a-temporale di eterno “ragazzo” (meraviglia).Nel tempo, l’emancipazione di Dick è stata segnata da cicli di storie e caratterizzazioni figurative via, via diverse (compresa la nuova super identità di “Nigthwing”) e, in alcuni casi, perfino contraddittorie. Chiedere alla lunga serialità di un comic book la compatta coerenza di un romanzo letterario sarebbe assurdo, tuttavia questo progressivo affastellamento di memorie e trame costituisce davvero un romanzo di formazione, alla Charles Dickens.Dick Grayson percorre un autentico “coming of age”, ovvero un cammino di crescita e maturazione da giovane ad adulto. Il climax drammaturgico è stato toccato, nel corso di un recente ciclo narrativo in cui Dick si trova a sostituire lo stesso Bruce, sotto il cappuccio di Batman, e arriva a prendere piena consapevolezza di sé in un memorabile monologo (Batman #697):
“Io non sono Bruce Wayne… Ma ho fatto quello Batman doveva fare. Ho agito da Cavaliere oscuro. Al meglio delle mie capacità sono diventato lui… Non come Dick Grayson. E non come Bruce Wayne. Ma come Batman…”
L’arco di trasformazione figurativa del personaggio è completato. L’allievo supera il maestro nell’unico modo in cui la logica seriale consenta di farlo, rimpiazzandolo.
Non si uccide così un pettirosso
Ma se la figura di Dick Grayson segnala una possibile evoluzione positiva del ruolo del sidekick verso l’autonomia e, in termini editoriali, verso lo spin-off, gli altri giovani co-protagonisti che si sono alternati a fianco di Batman non hanno avuto la stessa fortuna. E non potevano averla, per il semplice fatto che sarebbe stato impossibile far ripercorrere ad un altro personaggio, la strada già battuta da Dick Grayson, senza che sembrasse una bolsa ripetizione del già detto.
L’eterno ritorno dell’identico della serialità funziona solo se si accompagna a costanti variazioni figurative. Nel caso del sodale di Batman, a partire dagli anni Ottanta, le variazioni dei vari Robin riflettono le trasformazioni eclatanti del genere supereroistico nel suo complesso: la tendenza al misticismo, l’esasperazione della violenza e, soprattutto, l’estetica del lutto (sul tema rimandiamo a Barbieri 1991 e D’Angelo 2011). Non è un caso che Jason Todd, il secondo Robin, si sia conquistato il suo posto negli annali del fumetto per la drammatica dipartita ad opera del Joker, nella saga “A death in the family”, promossa con uno dei più squallidi espedienti di marketing che la storia editoriale del comicdom ricordi. Furono, infatti, gli stessi lettori a decretare (o almeno a sancire) la tragica uccisione del personaggio, partecipando a un sondaggio telefonico, lanciato dall’editore.
Ma che la morte di Robin fosse figlia, prima ancora che delle sprangate del Joker e del linciaggio telefonico, di una mutata consapevolezza di genere (e di pubblico), ce ne accorgiamo retrospettivamente se guardiamo al precedente eversivo di The dark Knight return.
Da Parsifal a Lolita
Il romanzo grafico di Frank Miller del 1986, si colloca al di fuori della continuity canonica del personaggio. Il racconto mette in scena un anziano e crepuscolare Bruce Wayne, ormai ritiratosi dall’azione. Miller fa intendere che il pensionamento di Batman sia legato anche alla morte di Robin, stuprato e ucciso dall’arcinemico ghignante.
A permanente memento della tragedia, Wayne conserva in una teca a vista nella bat-caverna il costume dell’assistente. Insomma, in questa versione revisionista del mito sembrerebbe non esserci spazio per la solarità ingenua del “Pettirosso”, se non nella forma museale di un ricordo. Un ricordo doloroso che riverbera, in qualche modo, anche il trauma originale su cui si fonda l’epopea dell’uomo pipistrello. Così come il piccolo Bruce ha assistito impotente alla morte dei suoi genitori, così l’adulto e potente Batman non è riuscito a salvaguardare l’incolumità del suo giovane pupillo.
La morte del sidekick diventa, quindi, uno straordinario catalizzatore drammatico e lo sviluppo della trama stessa, ideata da Miller, si dipana attorno all’elaborazione del lutto. Il vecchio/nuovo Batman torna in azione solo nel momento in cui riesce ad assumersi il peso della propria fallibilità e sceglie, alla fine, di arruolare una giovanissima Robin, Carrie Kelley. Come dicevamo in precedenza, Miller gioca in maniera consapevole con la sovrainterpretazione sessuale della relazione, sostituendo il velato parsifalismo maschile, con un ammiccante lolitismo. È interessante notare come Bruce giustifichi al fedele maggiordomo Alfred la scelta di questa nuova pupilla:
“È perfetta. E’ giovane. È intelligente. È coraggiosa. Con lei, posso mettere fine a questo non senso mutante una volta per tutte.”
Essere Robin
In pratica, The dark Knight return rovescia l’asimmetria classica tra il Batman adulto e il Robin adolescente nella dicotomia anziano/giovane e nel farlo legittima, in una prospettiva inedita, il ruolo del “sidekick”. Carrie è l’aiutante magico della fiaba senza cui il vecchio Bruce non potrebbe raggiungere il lieto fine. Con la sua sfrontata giovinezza sostiene l’azione dell’anziano guerriero, ma soprattutto ne riaccende la visione di speranza in un futuro migliore. Per paradosso, l’interpretazione revisionista di Frank Miller del personaggio di Batman – e di conseguenza di quello di Robin – dietro una superficie iconoclasta e dissacrante, sostiene le ragioni poetiche di entrambe le figure. Peter Pan continua a volare se non perde la sua ombra, il superuomo esiste se mantiene vivo il suo alter ego/partner “bambino”.
In fondo, è la linea che – dopo Miller – hanno seguito tutti gli autori che si sono trovati alle prese con i vari Robin. Che il tipo (o la tipa) dietro la maschera da pettirosso si chiami Jason Todd o Tim Drake, Stephanie Brown o Damian Wayne, non cambia poi molto. Tra dolorosi abbandoni e sorprendenti ritorni, sembra che, accanto a Batman, debba sempre esserci un Robin.
Bibliografia
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I brani dei testi di lingua inglese, citati nel corso dell’articolo, sono stati tutti tradotti da Marco D’Angelo.
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