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I dolori di un non più giovane scrittore: tempo per leggere, Kublai Khan e “Possibilianismo”

Creato il 01 luglio 2011 da Sulromanzo

Kublai KhanStava leggendo. Perché leggere è fondamentale per scrivere, ma non c’è mai abbastanza tempo per farlo. E per questo il non più giovane scrittore si sentiva fatalmente in colpa, rinnegando il suo lavoro (quello che si fa per i soldi), la sua famiglia, i suoi impegni inutili e, di fatto, anche la lettura stessa, perché sottraeva tempo alla scrittura. Lo scrittore percorreva così tutte le fasi del fatidico paradosso di chi vuole vivere due vite in contemporanea: quella dell’artista, che affronta tutto se stesso, disposto a negare tutto se stesso, se i propri bisogni non combaciano con quelli delle sue trame, dei suoi personaggi, della sua idea di scrittura e quella dell’uomo, che punta a realizzare tutto se stesso, pronto a negare gli altri se non combaciano con la propria idea di vita.

Mentre proseguiva nella sua lettura, attorcigliandosi nel suo paradosso, il non più giovane scrittore, era consapevole di combattere contro il suo più acerrimo nemico: il tempo. Un romanzo di un pretenzioso autore americano, un articolo di un contraddittorio critico italiano, un saggio di un furbo filosofo tedesco, l'uno sopra all'altro stipati e frullati, per tentare di rubare il tempo al tempo stesso.

Come di consueto, il non più giovane scrittore cercava di immagazzinare ogni rigo che colpiva la sua attenzione, immaginando questo o quell’aggettivo, questa o quella metafora o situazione a cui potersi ispirare per il proprio romanzo, ricordando che, come affermava Melanie Griffith nel film anni '80 "Una donna in carriera", "non si sa mai da dove può arrivare una buona idea".

Lo scrittore era convinto che se avesse avuto abbastanza tempo per leggere tutto ciò che voleva, liberamente, parallelamente e massivamente, avrebbe avuto tutto il database emozionale necessario per completare un grande romanzo. Già, tempo, di nuovo lo stramaledetto tempo. Era in quei momenti di sconforto che si sentiva come Kublai Khan, quando si rese conto che il suo impero era così vasto da non poter osservare e conoscere tutto ciò che conteneva, così come per il non più giovane scrittore era impossibile leggere e conoscere tutto ciò di cui aveva bisogno per scrivere, a meno di non sacrificare la scrittura stessa. Non aveva scampo. Non poteva certo incaricare il suo esercito di "leggere" tutto ciò che lui non aveva il tempo di assimilare, così come aveva fatto Kublai Khan con gli eventi che si susseguivano nel suo regno, sebbene poter guidare un esercito di proseliti sia un sogno comune a molti autori.

Fu allora che il non più giovane scrittore si mise a cercare qualche notizia in più sul grande condottiero, per vedere se poteva riadattare qualche sua idea. E fu allora che si imbatté in David Eagleman e in un anglofilo neologismo: Possibilianismo (corrente di pensiero che tende a cercare costantemente nuove idee che l'essere umano non ha ancora avuto modo di sperimentare, sia in campo religioso che scientifico, perché troppo legato a certezze che di “certo” hanno ancora ben poco).

L'idea di base di questo studioso americano di neuroscienze e psichiatria, nonché contestato filosofo, era incredibilmente semplice e al contempo rivoluzionaria, così il non più giovane scrittore se ne innamorò all'istante. Eagleman insinuava il dubbio in una delle poche scomode certezze dell'essere umano: il tempo scorre indipendentemente dal volere degli uomini e, come ricordava Leopardi nelle Operette Morali, è insensibile al loro rammarico o alle loro speranze. Ebbene questo americano così ingenuo da sfidare il “certo”, tentava di dimostrare che il tempo è soltanto una percezione dell'essere umano e come tale è una “robbery thing”, ossia qualcosa di gommoso e adattabile alle nostre emozioni. Il tempo si allunga e si restringe in funzione della percezione dell'uomo ed è in definitiva una sua invenzione. Non è qualcosa d’ineluttabile che consuma e sottrae, ma qualcosa che l'essere umano crea e gestisce, con il suo cervello, aumentandone o riducendone l'impatto, per organizzare le proprie percezioni sensoriali e creare così un ordine

Il non più giovane scrittore fece cadere il romanzo, l'articolo e il saggio che teneva sulle ginocchia sotto il pc (grazie al quale era appena entrato in contatto con il Possibilianismo), chiuse gli occhi ed immaginò di precipitare.

Fra gli esempi più semplici portati da Eagleman a dimostrazione della sua tesi c'era infatti la caduta nel vuoto. Lo studioso affermava che se si chiede ad una persona che si lancia nel vuoto di misurare la percezione del tempo necessario per ritrovarsi a terra, questa sarà notevolmente superiore a quella misurabile da un orologio. Ciò dimostrerebbe la soggettività del tempo stesso.

Mentre il non più giovane scrittore stava per aprire la finestra per valutare l'impatto di un test su se stesso, nonché i danni di un’eventuale caduta dal secondo piano, la sua mente viaggiava, più veloce, più veloce del tempo. Era possibile? Poteva il non più giovane scrittore esercitare questo prezioso e nascosto dono del suo cervello e dilatare il tempo da dedicare alla lettura tanto da realizzare il suo obiettivo (scrivere il romanzo perfetto)?

Si sarebbe esercitato ogni giorno.

Sì, ogni giorno. Convincendosi che il tempo era una sua percezione e che quindi poteva anche ignorarlo. Sì, ignorarlo... ma questo non gli avrebbe fatto perdere ancora più tempo?


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