Il vento del cambiamento si è placato, la gente è stanca, il Paese è disilluso e i Repubblicani arrancano. Le primarie del GOP non hanno sfondato e gli elettori hanno perso la speranza di poter cambiare il sistema. Chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti?
I don’t care. Potrebbe essere questo il nuovo slogan per le presidenziali statunitensi del 2012. Incredibile. La passione, il sentimento, il fervore della campagna del 2008 è un ricordo molto lontano, sembra quasi di trovarsi in un’altra America, diversa, spenta; ma forse disillusa è l’aggettivo che meglio la dipinge.
La gente, il cuore degli Stati Uniti, la middle class, nessuno sembra interessarsi più di tanto a chi siederà nell’ufficio ovale il prossimo novembre. E tutto ciò è ancora più surreale se si tiene presente che la cronaca di questi fatti coincide con i giorni precedenti e successivi al famoso ‘big tuesday’, la madre di tutte le primarie statunitensi. L’Ohio è da sempre uno Stato decisivo nella corsa alla Casa Bianca, per diversi motivi. Innanzitutto rappresenta il Midwest in senso lato, contiene un bacino di elettori decisivo e un numero di super elettori molto influente. In qualche modo rappresenta anche il termometro dell’umore politico di un po’ tutti gli Stati centrali degli Usa, che rappresentano il nocciolo duro di tutte le campagne presidenziali della storia della Federazione. Eppure, girando per le strade di Cincinnati, Columbus e Dayton nessuno sembra essere più di tanto eccitato dall’importante appuntamento elettorale.
Nel 2008 guidando per le strade delle stesse città era impossibile non imbattersi in pubblicità elettorali, volontari disposti a vestirsi da ‘sandwich’ pur di estrapolare qualche voto in più dai passanti, porta a porta, gadgets. Niente di tutto ciò. L’unica persona che ricordo di aver visto sul ciglio di una strada statale nella periferia di Cincinnati era un uomo che pubblicizzava l’attività di un ufficio adibito alla riscossione delle tasse.
Nonostante il notevole sforzo mediatico, la gente ha smesso di credere nella possibilità di un reale cambiamento. Le aspettative che Obama aveva rilanciato quattro anni fa sono state ampiamente disattese, in parte per colpa della congiuntura economica globale che dal 2008 in poi non ha mai smesso di peggiorare, ma in parte anche per l’inaspettata flessibilità del presidente nei confronti dell’opposizione repubblicana. Ma, ancora, la sfiducia nei confronti dell’attuale amministrazione continua a non spiegare il poco entusiasmo nei confronti di una possibile nuova alternativa repubblicana. Il Super Martedì, così come viene chiamato da queste parti, è stato un flop. Nessuno dei candidati alla nomination del GOP è riuscito a mettersi in mostra. Per la prima volta, forse, la pochezza dei contenuti delle campagne repubblicane potrebbe avere avuto il sopravvento sulla simpatia politica degli elettori. Mai come quest’anno la religione ha svolto un ruolo così centrale nei programmi politici dei candidati alla corsa presidenziale. Il mormone e il cattolico, Romney e Santorum, puntano sulla religione, o almeno questo è ciò che la gente della strada percepisce, e quindi ciò che veramente conta. Alcuni simpatizzanti del GOP lo confermano: “Bisogna ritornare ad abbracciare i veri valori del cristianesimo per riuscire a superare la crisi morale di questi ultimi anni”, mi racconta un signore sulla settantina in fila per scegliere il suo candidato favorito a Fairfield, in Ohio (il suo è Santorum, ndr). Ma ancora, non sembra abbastanza. La generazione a cui questo signore appartiene non ha veramente affrontato la crisi economica, per diversi motivi: alcuni sono andati in pensione prima che la bolla dei Subprime scoppiasse, altri fanno parte, per anzianità, del programma Medicare e quindi non si vedono sfilare dallo stipendio cinquecento dollari al mese per coprire le spese delle assicurazioni sanitarie, altri ancora vivono l’ideale della politica in maniera distaccata dalla realtà e dalla necessità perché inchiodati nei ricordi di un passato diverso. Niente di più simile a quanto non accada in qualsiasi altro angolo del pianeta. Chi ha cambiato veramente modo di guardare alla politica e quindi anche, possibilmente, il ragionamento attraverso il quale porsi di fronte alla scheda elettorale, sono le vittime della crisi di questi ultimi anni, democratici e repubblicani, bianchi e afro-americani, nativi e ispanici. Chi ha perso il lavoro, chi ha visto chiudere la fabbrica dove sudava il salario per mantenere la tipica famiglia statunitense con tre figli a carico, gli abitanti di Detroit che hanno assistito senza mezzi termini al vero e proprio fallimento della città, che oggi assomiglia più a un fantasma di se stessa che a una metropoli in grado di dare lavoro a milioni di persone, chi ha capito che gli ideali non portano il pane in tavola né tantomeno coprono le spese del dentista sarà probabilmente il protagonista di questa nuova tornata elettorale.
Mi ha sempre colpito la passione con cui gli statunitensi si sedevano nei loro enormi divani davanti alla tv per osservare, studiare, commentare i dibattiti politici, sia allo stadio iniziale delle primarie sia in quello successivo e decisivo dello scontro bipartisan. Oggi mi colpisce vedere la tv spenta. Le parole non ingannano più nessuno e la religione difficilmente potrà costituire la leva attraverso cui riportare un po’ di fiducia nelle case della middle class americana. Per questo nessuno dei candidati repubblicani al ticket presidenziale è ancora riuscito a conquistare veramente le attenzioni e le simpatie degli elettori.
La sensazione diffusa è che Obama vincerà le elezioni del prossimo novembre e che lo studio ovale resterà all’ex senatore, venuto dall’Illinois con i suoi ideali rivoluzionari, per altri quattro anni. Ma, allo stesso modo, nessuno ne sembra davvero entusiasta.
Ho incontrato, a distanza di quattro anni, le stesse persone che avevo lasciato con in mano le bandiere con il simbolo della campagna di Obama, nei picchetti a favore del vento del cambiamento venuto da Chicago, e con le loro convinzioni ben salde nelle loro menti. Al loro posto ho ritrovato vaghezza, disillusione, amarezza. Certo loro voteranno per Obama, non ci sono dubbi, eppure questo presidente li ha delusi; nessuno gli rinfaccia la crisi economica né tantomeno la perdita dei posti di lavoro ma la sua ambiguità politica, la sua debolezza in Congresso, la sua mano tesa all’avversario tanto combattuto durante la campagna del 2008. Alcuni dicono che Obama non ha nemmeno cominciato a fare campagna elettorale, sta solo riscaldando i motori. Forse. Ma certo per lui non sarà facile riuscire a risalire la china del baratro ricorrendo a facili slogan e temi scottanti che nemmeno lui sa più se possono essere risolti con la facilità che aveva immaginato. L’entusiasmo con cui Obama era stato accolto era dovuto alla volontà di cambiamento di un sistema che sembrava davvero non funzionare più; e ora i Repubblicani sembrano voler fare lo stesso, ma il problema è che se non ha funzionato la prima volta, non è detto che la gente sia disposta a credere che questa sia la volta buona. Con buona pace dei rivoluzionari in giacca e cravatta.