Scriviamo queste righe con una certezza e con la consapevolezza di una possibilità: il tennis è cambiato; Nole Djokovic ha praticamente le stesse chance di vincere il Grande Slam che qualsiasi altro giocatore ha di imporsi a Parigi, Wimbledon o New York entro la fine dell’anno. È il tennis contemporaneo, bellezza.
Una definizione sintetica che merita un’scomposizione analitica dei molti fattori che racchiude: il progresso tecnologico di racchette, corde e palline, l’evoluzione delle superfici, la crescita esponenziale delle prestazioni grazie a una preparazione atletica che è, ormai, una vera e propria scienza, i cambiamenti della tecnica di gioco (anticipo dell’anca, top spin esasperato e sostanziale monopolio del rovescio a due mani) i quali – oggi più che mai – possono basarsi su attrezzi all’avanguardia e su una ricerca tecnologica spasmodica nello scandagliare ogni dettaglio alla ricerca di soluzioni mirate al superamento di qualsiasi sfida tecnica, per quanto minima.
E ancora marketing, tennisti famosi e ricchi come star, corti dei miracoli al seguito dei campioni: tecnici, palleggiatori, preparatori atletici, psicologi, nani e ballerine.
Da una trentina abbondante di anni il tennis è principalmente una questione di topspin: merito dell’evoluzione dei materiali, dei piatti e delle corde? Certo, ma non solo.
L’omologazione delle superfici (si cerca di velocizzare la terra e rallentare il cemento, per capirci – mentre un discorso a parte andrebbe fatto per erba e indoor) ha reso possibile (leggi: “vincente”) un’unica strategia di gioco: anticipo, fisicità e grandi bordate, più coperte che piatte, dalla riga di fondo.
Il gioco è cambiato anche dal punto di vista atletico: gli scambi sono infinitamente più lunghi (come durata) e veloci (come rapidità di palla) rispetto al tennis d’antan.
Giocatori come il già citato Djokovic sfiancano l’avversario con una serie di recuperi incredibili: pensavi di aver fatto il punto? Sbagliato. Gioca ancora un colpo, e poi vediamo. E magari un altro ancora. E magari alla fine sei tu a sbagliare.
Grandiosi diritti in lift sorvolano la rete di un paio di metri prima di atterrare in una sottile striscia di terreno appena prima della linea di fondo.
“Ma gli arrotini esistono dai tempi di Vilas”, direte voi. No, questi sono i liftatori 2.0. David Forster Wallace l’ha spiegato mirabilmente: se il gioco degli anni ‘90 si costruiva su traiettorie rettilinee e palle che sembravano più veloci e parevano arrivare prima con l’obiettivo (spesso) di prendere la rete per concludere il punto; oggi gli scambi si basano su colpi che, a causa delle traiettorie arcuate, viaggiano molto più velocemente (si parla di 20/30 chilometri orari in più sui massimali dei colpi più rapidi) e impiegano esattamente lo stesso tempo della pallina anni ‘90 per raggiungere l’avversario dall’altra parte del campo.
La differenza si apprezza dopo il rimbalzo: la palla, letteralmente, salta.
I tennisti moderni, vere macchine da guerra, sanno gestire anche questa energia immagazzinata nella palla dallo spin e sprigionata dopo il rimbalzo: tutti o quasi i top 100 sono in grado di giocare a ritmi impensabili anche solo due decenni fa.
Senza contare l’elemento di equilibrio costituito dal servizio: nel tennis maschile, anche i giocatori attorno alla centesima posizione ATP hanno nella battuta un colpo devastante; tenendo il loro turno di battuta, possono fare partita (quasi) pari con alcuni dei giocatori di vertice.
Federer, Nadal, Djokovic, Murray. L’epoca dei Big Four rappresenta un momento della storia del tennis difficilmente ripetibile.
Per esempio, per la prima volta dai tempi di Laver, un giocatore ha concrete possibilità di aggiudicarsi il Grande Slam. E lo scriviamo agli inizi di giugno (Djokovic ha il permesso di fare gli scongiuri), quando ancora deve concludersi il Roland Garros. Torneo nel quale, sulla sua superficie meno congeniale, il serbo ha sconfitto Nadal, in tre set nemmeno troppo lottati: Nadal, il miglior giocatore da terra battuta della storia (l’endorsement è del signor Bjorn Borg), lanciatissimo verso il decimo titolo a Parigi (doppia cifra in un singolo Slam nel maschile, non so se vi rendete conto). Di certo non uno qualunque.
Forse è proprio Nadal la quintessenza del tennis del Ventunesimo secolo: atletismo mostruoso, recuperi e colpi uncinati, rotazioni folli (si parla di 5mila rotazioni al minuto per il suo diritto, secondo uno studio pubblicato da Ubitennis.com che potete consultare qui: vuol dire circa ottanta rotazioni al secondo).
Negli ultimi 10 anni solo lo svedese Soderling era riuscito a sconfiggerlo all’ombra della Tour Eiffel, e soltanto grazie al ginocchio malandato del maiorchino, nel maggio di 6 anni fa.
Mercoledì non c’è stata partita: 7-5 6-3 6-1, 102 punti a 71, 31 punti in più per il serbo, che nel tennis sono un’enormità. Eliminato Nadal, il serbo ha di fronte a sé Murray – un po’ il Ringo Starr dei Big Four - e uno tra Wawrinka, facile mattatore del connazionale Federer, e l’idolo di casa Tsonga.
Sia Federer, sia Nadal, sia lo stesso Djokovic hanno in carriera vinto tre slam su quattro in un anno solo (Federer raggiunse la finale, nel 2006 e nel 2007, anche nello Slam mancante, ma Nadal disse di no entrambe le volte sul Philippe-Chatrier Court). Se Djokovic dovesse alzare tutti e quattro i trofei entrerebbe nella storia con un’impresa che manca da ben 46 anni.
E se vi dicessimo che il dato più sorprendente non è questo? Parliamo ancora di anni, ma questa volta da un punto di vista anagrafico. Djokovic, classe 1987, sta disputando la miglior stagione della sua carriera (un parziale di 40 vittorie e due sole sconfitte in questo 2015, suo annus mirabilis) a 28 anni.
Un dato interessante perché non isolato ma significativo di una tendenza: chi ha letto Open, la splendida autobiografia di Andre Agassi, saprà che il culmine della carriera di un tennista (uomo) si collocava, negli anni ‘90, tra i 23/24 e i 27/28 anni. Prima e dopo si poteva raccogliere qualche exploit, ma era in quel lustro che si concentravano i successi di un campione: dopo la ginnastica artistica femminile, il tennis era forse lo sport in cui l’acme della carriera di un professionista arrivava, anagraficamente, prima.
Federer, Nadal, Djokovic, in misura minore Murray e gli altri hanno cancellato questa regola in poco più di una decina d’anni. Un altro dato semplicemente pazzesco.
Del serbo si è già detto: la miglior stagione a 28 anni. Nessun calo fisico o mentale, nessun errore tecnico, ritmi folli e un costante miglioramento dei fondamentali.
Lo spagnolo fece registrare i primi successi a 18 anni e mezzo e il primo titolo dello Slam a 19 appena compiuti. Un teenager: roba da tennis femminile anni ’80 e ’90. La longevità di Nadal è un dato clamoroso considerando il suo tipo di gioco, logorante per eccellenza. Courier, per dire, nei primi anni ’90, costruì ed esaurì la sua carriera in una manciata di stagioni.
Prima dell’esplosione di Djokovic, Nadal dovette confrontarsi per molte stagioni con il miglior Federer di sempre: scontri diretti alla mano, a uscirne vincitore è stato lo spagnolo.
In ultimo, Federer. Il dominatore degli anni Duemila – se i record di Nadal e Djokovic sono incredibili, i suoi lo sono ancora di più – è a metà del decennio successivo, a 34 anni, il numero due del mondo. Non è il caso di dare (troppo) peso all’ultima sconfitta nel derby svizzero di Parigi: la terra rossa non è mai stata la sua superficie.
Federer resta il principale ostacolo per Djokovic nella corsa verso il Grande Slam: la resa dei conti saranno i sacri prati dell’All England Club.
Federer, un altro dalla longevità biblica: quando Nadal (attualmente sceso al fondo della top ten) entrò per la prima volta in top 10, nei primi mesi del 2005, Federer era il miglior giocatore del mondo già da più di un anno.
La bellezza classica del tennis di Federer non è solo senza tempo: è fuori dal tempo, è contro il tempo, è tale nonostante il tempo. Facile (si fa per dire) fare serve e volley negli anni ’70, con in mano una Wilson di legno pesante mezzo chilo.
Sua Maestà gioca d’attacco contro mostri che rispondono a oltre 130 chilometri l’ora.
Che lo svizzero riesca a mettere la palla in campo efficacemente – vincendo – ancora oggi, con i riflessi che a quasi 34 anni inevitabilmente rallentano, è sovrumano. La realtà è che Roger Federer è nato l’8 agosto del 1981. Federer come Maradona, come Messi, come Jordan: godetevelo finché gioca, perché roba del genere non si crea in laboratorio, né in una Accademy sulla East Coast con i metodi di Nick Bollettieri.
Puoi solo sperare che il buon Dio, magari tra trent’anni, mandi in terra un altro come lui.
D’altra parte, quando hai tutto il suo talento puoi permetterti di ridefinire i concetti e i canoni di uno sport, di portarne i limiti un po’ più avanti.
O un po’ più indietro, come sembra stia facendo re Roger.
Maurizio Riguzzi e Andrea Donna
@twitTagli