E i laureati in comunicazione invece? Mi è capitato di conoscerne alcuni che, povera me, pensavano di stringere in pugno l’arte del marketing mentre in realtà cercavano inconsapevolmente di emergere dalla sindrome adolescenziale dello sfigato, quello che non si filava nessuno.
Ne conosco una che quando ti parla è talmente noiosa, pedante e prevedibile che a metà discorso tu hai già capito dove sta andando a parare e puoi utilizzare il tempo residuo in attività collaterali ben più fruttifere (manicure, filo interdentale, iPod e così via). L’importante è non farle mai notare che con la sua laurea ci si può pulire i piedi, perché se solo osi interromperla si rivolta come una vipera calpestata intimandoti: “Lasciami finire!”. D’altra parte non deve essere affatto facile accettare che non basta una laurea per la redenzione.
Forse a volte, per evitare il ridicolo, basterebbe un po’ di umiltà nel riconoscere i propri limiti, perché non è sempre colpa del destino infame, dei raccomandati, delle parentopoli o della scarsa lungimiranza del mercato o degli scounter: certe volte siamo noi a non avere il talento necessario.
Quando vedo su Facebook un amico promuovere la sua attività collaterale di grafico free-lance attraverso un sito che nemmeno una tecnolesa come me oserebbe mandare on-line, mi rammarico per lui e per la figura di merda colossale che fa ogni giorno: nemmeno i cantanti napoletani neo-melodici che van per matrimoni gli chiederebbero una copertina di CD.
Il bello è che questi fallitissimi sono estremamente convinti di ciò che sono, di ciò che valgono e di quello che sanno fare. Beati loro.
Qualcuno però gli dica che esserne convinti non sempre basta.