Ovviamente l’opera è stata realizzata in semiclandestinità, così come la precedente, This Is Not a Film (2011), documentario nel quale l’autore di Il cerchio raccontava allo spettatore la sceneggiatura della pellicola che non gli era stato permesso di girare.
Anche Closed Curtain è inevitabilmente ispirato allo status di Panahi: un uomo si nasconde all’interno di una casa dalle tende chiuse per scrivere una sceneggiatura. Improvvisamente irrompono un ragazzo e una ragazza, che si rifiutano di andarsene nonostante le sue insistenze.
Ci troviamo di fronte a un piccolissimo film che non può che risentire di tutti i limiti produttivi insiti in un progetto di questo tipo: eppure, Panahi e Partovi realizzano un’opera di grande fascino, non priva di un ritmo sinuoso e che può essere letta attraverso diverse interpretazioni. Nelle svolte narrative e nei dialoghi è evidente il legame con l’opera di Samuel Beckett, e in particolare con il cortometraggio Film, diretto da Alan Schneider nel 1965 e scritto dal drammaturgo irlandese, che vedeva come protagonista il grande Buster Keaton.
La finzione è svelata nella seconda parte della pellicola, quando appare sullo schermo Jafar Panahi stesso che, inizialmente, si mette a guardare con nostalgia le locandine dei suoi film, ricordi di un passato artistico sepolto dall’assurdità di una condanna iniqua. Quindi, il regista racconta in dettaglio la sua attuale condizione e ci rivela di aspettare speranzoso la possibilità di un cambiamento. Comprendiamo così come i personaggi che si insinuano nella casa dalle tende chiuse non siano altro che creature cinematografiche (lo sceneggiatore, l’attrice) creati dalla mente dell’autore: Jafar è tornato a giocare con il linguaggio filmico come quando era un uomo e artista libero, e ora sappiamo che probabilmente non smetterà mai di farlo.
Voto: 2,5