Se una trilogia è così potente da far realizzare, nel giro di pochi anni, non solo l’adattamento cinematografico di ogni suo libro, ma addirittura un remake statunitense del primo film, allora vale davvero la pena di parlarne. In realtà, per chi avesse letto i romanzi in questione, ossia la trilogia di Millennium – Uomini che odiano le donne (2005), La ragazza che giocava con il fuoco (2006) e La regina dei castelli di carta (2007) – tutto questo preambolo risulterà completamente insensato, in quanto la grandezza della trilogia di Stieg Larsson, morto prematuramente prima della pubblicazione dei suoi capolavori, la si scopre soprattutto sulla carta stampata, anche perché le realizzazioni cinematografiche lasciano parecchio a desiderare.
È vero che girare tre film nello stesso anno, il 2009, è un’impresa che pure ad un regista prolifico del calibro di Clint Eastwood sembrerebbe impossibile, ma forse è proprio in questa fretta che va ricercata la causa di una caduta di stile che si può registrare dal primo al terzo film. La produzione svedese/danese, firmata Niels Arden Oplev e Daniel Alfredson è infatti un’operazione molto furba, in quanto nel primo film, il migliore dei tre, si assiste alla fedele e pedissequa riproposizione del romanzo, senza aggiunte particolari o accenti autoriali di alcun tipo, tanto che poi il prodotto è stato sminuzzato e messo in pasto ai telespettatori in episodi da 90 minuti l’uno. La storia del reporter della rivista Millennium, Mikael Blomkvist (Michael Nyqvist), e delle vicende che lo hanno portato dalla denuncia per diffamazione al suo lavoro come detective privato per la potente famiglia Wagner è riportata in maniera abbastanza accattivante, benché sia facile notare come si tratti di un adattamento che nulla aggiunge al testo d’origine. Per alcuni è un bene, ma in questo caso si rischia l’impoverimento, che puntuale arriva con i film successivi, quando l’attenzione si sposta tutta sul personaggio immensamente complesso come Lisbeth Salander.
Lisbeth è la vera protagonista, capace di catalizzare l’attenzione, di far innamorare il lettore, di emozionarlo, di colpirlo, anche duramente, con le sue sfumature di carattere, con la sua storia tanto crudele e con la sua personalità forte e geniale. Tutto ciò che Noomi Rapace è riuscita a rendere solo in minima parte, non tanto per demeriti suoi, quanto perché l’atmosfera generale delle pellicole non lasciava spazio a questo genere di sensazioni, cercando di arrivare a tutti i costi al centro dell’azione, tagliando quindi alcune situazioni fondamentali per comprendere a pieno la psicologia di uno dei personaggi più belli a cui l’inchiostro abbia dato vita.
Diverso il discorso se invece si analizza la versione statunitense, firmata David Fincher. In questo caso è infatti evidente sin dagli strabilianti titoli di testa una marca autoriale di ben altro spessore, una ricerca che vada oltre la carta stampata per far emergere molti dei temi su cui Fincher ha costruito la sua poetica: l’emancipazione della donna (Ripley-Singer-Salander), la solitudine e la crudeltà e il cinismo umano. A questo si aggiunge la capacità di creare un’atmosfera ricca di suspense, con una sceneggiatura scritta ad hoc, con tagli e aggiunte ben bilanciate e un cast molto più conforme alle descrizioni del romanzo: Daniel Craig è un Blomkvist molto più credibile, mentre Rooney Mara è solo lievemente superiore a Noomi Rapace. Inoltre la fotografia di Jeff Cronenweth non ha nulla a che vedere con la versione tv nordica: molto più precisa, volutamente gelida a tratti, capace di far quasi provare il freddo svedese solo guardando le immagini. Il tutto con una colonna sonora perfetta, che è assente ingiustificata nelle versioni del 2009, ma dopotutto stiamo parlando di uno dei registi più talentuosi di Hollywood, aera difficile aspettarsi di meno.
Tornando alla Svezia, se il primo film è comunque buono, quando si passa a La ragazza che giocava con il fuoco ci si rende conto che la fretta ha avuto il sopravvento e che molti dei risvolti emotivi ed intimi di Lisbeth, compreso il suo travagliato rapporto con Kalle dannato Blomkvist e con il mondo intero, siano stati lasciati completamente da parte, non permettendo a chi vede il film senza una lettura pregressa di comprendere alcune dinamiche fondamentali. È vero, non è necessario raccontare tutto nei dettagli, ma bisogna stare attenti a cosa si tralascia, perché si rischia di ridurre un romanzo che sfiora il capolavoro ad un’inchiestina dalle macchie thriller/noir, come di fatto il film è diventato.
Con La regina dei castelli di carta, il libro più emozionante e ricco di sviluppi narrativi in cui Larsson ha saputo rinnovarsi, si era arrivati diretti all’anima di Lisbeth, restando stupiti se si ripensa che tutta la storia era partita solo come una detective story privata per una scomparsa di una ragazza. Il libro era l’apice della grandezza della trilogia, mentre il film sprofonda nell’abisso della noia, purtroppo, tralasciando tutta la vicenda di Erika Berger – l’amante di Blomkvist e co-redattrice di Millennium – e spezzettando il processo a Lisbeth, ridimensionandolo incredibilmente. Ogni personaggio nei romanzi ha una complessità, è a tutto tondo, mentre nei film l’appiattimento è quasi totale, ed è un vero peccato perché la base di partenza era comunque di ottima fattura.
Con i suoi romanzi, Larsson ha voluto denunciare la situazione assurda e agghiacciante con cui in Svezia le ragazze sono costrette a rapportarsi, con numeri impietosi e percentuali lapidarie all’inizio di ogni sezione del suo libro. Solo leggendolo si può capire perché tradurre The girl with the dragon tatoo con Uomini che odiano le donne. Lisbeth è colei che punisce gli uomini che odiano le donne, ed è scritto a chiare lettere nel primo romanzo.
Non si sa ancora se Fincher abbia in progetto di concludere la trilogia, ma senz’altro i libri meriterebbero una trasposizione cinematografica all’altezza, come nel primo meraviglioso capitolo.