Ci sono opere letterarie che arrivano silenziose, quasi senza farsi notare, ma che una volta esplose risultano di una violenza devastante. Sono opere di cui spesso il cinema si ciba, le divora per poterne trarre denaro, il più delle volte, o per arricchirle ulteriormente con delle immagini che possano marchiare in modo indelebile nelle menti degli spettatori le parole scritte, laddove non dovessero essere sufficienti. Accade raramente che i risultati siano soddisfacenti, se si pensa al numero enorme di libri trasformati in sceneggiatura, ma quando nelle mani di un regista come David Fincher – già acclamato per Alien³ e per Se7en – finisce un libro del calibro di Fight Club, scritto da Chuck Palahniuk nel 1996, il risultato non può essere che lo stravolgente film di culto che ne è derivato, un’opera enorme con cui il regista si è definitivamente consacrato e in cui Brad Pitt ha offerto una delle prove più maestose della sua carriera.
Tyler Durden sta puntando una pistola in bocca ad un uomo. Chi è Tyler?da dove viene? Flashback immediato dove il malcapitato racconta la sua vita fatta di insonnia, noia, terapie di gruppo per malati terminali che servono a lui per evadere da un mondo dove, come un fulmine, entra prepotente Marla Singer. E Tyler Durden.
“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono” (Tyler Durden, Fight Club, David Fincher, 1999)
Al contrario di quello che potrebbe sembrare, la lotta fisica è solo l’ultimo degli elementi su cui focalizzarsi quando si parla di Fight Club. Il romanzo di Palahniuk è infatti una sorta di immenso stream of consciusness da parte di un protagonista senza nome, che nella trasposizione di Fincher adotta il volto di Edward Norton, che regala una splendida interpretazione e riuscendo a riportare in maniera fedele – forse aggiungendo anche qualcosa – ciò che era presente sulla carta stampata. Il personaggio di Norton farebbe infatti la gioia di uno psicanalista, con tutte le sue nevrosi e la sua abitudine di evadere l’insonnia grazie alle terapie di gruppo, cambiando nome ogni sera e fingendosi malato della malattia sbagliata. Vero protagonista e narratore, capace di far risaltare le debolezze dell’uomo in costante ricerca di sé, con il desiderio di emergere ma che, travolto dalla crisi e interiormente dilaniato, finisce col divenire veramente malato.
“Marla: il taglietto sul tuo palato che si rimarginerebbe se la smettessi di stuzzicarlo con la lingua... ma non puoi.” (Il narratore esterno, Fight Club, David Fincher, 1999)
Se Norton è fantastico, ancora di più si può dire di Helena Bonham Carter, capace di dare vita ad un personaggio che nel romanzo è una presenza forte, fastidiosa, intrigante, ma certo non così violentemente prorompente, provocatoria e provocante. Affascinata dalla morte al punto di volerla incontrare, Marla è per lo spettatore/lettore l’occasione per una riflessione sulla disperazione che porta allla ricerca del suicidio, controparte dell’autodistruzione praticata da Norton/Pitt con il fight club. L’attrice senza dubbio sfodera una delle migliori prove della sua carriera, dimostrando tutte le sue doti artistiche in un’interpretazione inquietante e allo stesso tempo affascinante, valore aggiunto di un film di per sé pazzesco e che con i suoi attori può ergersi a capolavoro assoluto.
“Omicidi, crimini, povertà. Queste cose non mi spaventano. Quello che mi spaventa sono le celebrità sulle riviste, la televisione con cinquecento canali, il nome di un tizio sulle mie mutande, i farmaci per capelli, il viagra, poche calorie” (Tyler Durden, Fight Club, David Fincher, 1999)
Senza dubbio quello che Fincher ha davvero regalato in più rispetto al romanzo è Tyler Durden: uno dei personaggi meglio riusciti e devastanti della storia del cinema, che nella filmografia dell’autore ha avuto una degna controparte solo con Lisbeth Salander, interpretata da Rooney Mara in Millennium – Uomini che odiano le donne. Ed è interessante che per un personaggio che inneggia alla lotta contro se stessi, contro le icone, contro i modelli che la società ci propina come divinità venga scelto proprio Brad Pitt, uno dei sex symbol per antonomasia, che è sempre stato l’incarnazione di tutti quegli elementi. Eppure, e questo ormai è risaputo, Brad Pitt non è solo bello, è anche un attore favoloso, e con Tyler Durden riesce a raggiungere apici – estetici e recitativi – a cui poi difficilmente è riuscito a tornare. Era complesso restituire l’enormità scritta da Palaniuk con questo personaggio, eppure Pitt ci riesce in maniera perfetta, regalando un’interpretazione da applausi.
“Quando stai per morire le persone ti ascoltano davvero. Non aspettano il loro momento di parlare” (Marla Singer al protagonista, Fight Club, David Fincher, 1999)
La complessità di Fight Club è indiscutibile. La riflessione che stimola sul valore della vita che ogni giorno viviamo, sulla crisi della persona e dei valori in cui sguazziamo senza quasi rendercene conto. È una sveglia che occorre per farci aprire gli occhi e portarci fuori dal torpore materialista di chi con gli oggetti vuole riempire il vuoto di emozioni e sentimenti che sperimenta ogni singolo momento della sua esistenza. La violenza espressiva utilizzata, sia nel romanzo che nella pellicola, è motivata dalla riflessione filosofica che porta con sé, acuita da ogni singola frase ed espressione critica verso la società ed il mondo in cui viviamo. Forse troppo nichilista, nella visione senza speranza che da sempre ha contraddistinto il cinema di Fincher, ma comunque meritevole di attenzione. Palahniuk ha scritto un gran libro, David Fincher lo ha trasformato in un capolavoro.