Spesso il cinema si è interrogato sul valore feticistico del filmare, powellianamente concepito come attrazione scopofila verso la morte al lavoro o inscritto dentro dinamiche di innocenza/colpevolezza nell'opera di cineasti come De Palma o Haneke. L'ultima devastante opera di Kim Ki-duk, fuori concorso a Venezia e già in uscita nelle sale italiane, rielabora molte di queste ossessioni alla luce di una poetica, come quella del regista coreano, unica nel panorama cinematografico internazionale.
Moebius è il tassello più estremo all'interno di una filmografia già tra le più radicali del cinema contemporaneo. Loop allucinato di incendiaria intensità, parabola di soppressione/sublimazione del desiderio sessuale che continuamente si riavvolge su se stessa, catartico e violentissimo itinerario verso una ridefinizione profonda del senso ultimo del filmare, amputazione di qualsiasi linguaggio verbale dal corpo del film, che scopre di poter vivere soltanto di gesti, rumori, sguardi.
Diversi sono i cineasti che nelle opere presentate in questa edizione della Mostra hanno trovato nel silenzio la cifra per raccontare il nostro tempo, da Groening a Tsai Ming-Liang. Una tendenza che, insieme a quella di esplorare le dinamiche di nuclei familiari sempre più in crisi, colloca il film di Kim Ki-duk al centro del filo conduttore di questa edizione, ma che, come spesso accade con il cineasta coreano, si declina in valori formali e teorici di ineguagliata originalità.
Moebius, nel percorso artistico del regista di Ferro3 e L'isola, arriva in un momento particolare e decisivo. Se Pieta per Kim Ki-duk ha rappresentato una trionfale rentrée nell'ambiente cinematografico, non bisogna dimenticare quanto, sul piano umano ed artistico, abbia su di lui pesato il lungo periodo di inattività forzata che lo aveva preceduto. Se Arirang sembrava annunciare il punto zero nella autodistruzione del suo corpo-cinema, e Pieta ne ha sancito la gloriosa resurrezione, Moebius è l'atto liberatorio e onanistico di un cineasta scampato alla morte che celebra il cinema nella sua più cristallina essenzialità. Atto sessuale e atto del filmare, entrambi gesti generatori di vita e di piacere, nella furente potenza di Moebius si confondono in un unico esaltante amplesso. Desiderato, negato, e infine sublimato nella pacificata serenità di un sorprendente, magnifico sguardo in macchina.