Dopo il realismo con echi noir e metropolitani di Rocco e i suoi fratelli, e dopo le anomale dinamiche coniugali dell'episodio de Il lavoro all'interno di Boccaccio '70, nella filmografia di Luchino Visconti avanza Il Gattopardo. Trasposizione inevitabile di un best-seller dell'epoca il cui successo, in quei primi anni Sessanta, era sopravvissuto purtroppo anche alla morte del suo autore, quel Giuseppe Tomasi di Lampedusa che non avrebbe mai goduto del trionfo della sua opera, in quanto morto prima della pubblicazione (per i tipi di Feltrinelli dopo il rifiuto di Elio Vittorini, che ritenendolo «troppo vecchio» per la collana I Gettoni di Einaudi lo consigliò ad altre case editrici).
Il Gattopardo aveva permesso a Tomasi di Lampedusa di ispirarsi alla figura del suo bisnonno, il principe Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, per generare un bestiario di vezzi, vanità e solitudine di una certa Sicilia – quella degli aristocratici e quella degli arricchiti, della nuova borghesia - all'alba della costituzione del Regno d'Italia. Non c'è più la speranza, da parte dei protagonisti dell'opera, di migliorarsi, ma di accettare il cambiamento con la consapevolezza dell'avvento di inediti dolori – ed è poco, ché sul romanzo di Tomasi di Lampedusa si potrebbero scrivere pagine, pagine e pagine di riflessioni.
La trasposizione di Luchino Visconti (sceneggiata da una manciata di nomi da brivido: Visconti stesso, Suso Cecchi D'Amico, Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli) si insinua, sensuale e capricciosa – eppure quanto mai malinconica – nel body of work di Visconti, tracciando una linea netta rispetto ai precedenti lavori del regista, aprendo la strada a quella parte della sua filmografia (Vaghe stelle dell'Orsa, La caduta degli Dei, Morte a Venezia, Ludwig, Gruppo di famiglia in un interno, L'innocente) in cui il raffronto e il tendere verso la Morte saranno sintesi imprescindibili non solo a livello diegetico, bensì come forme filosofiche vere e proprie in atto a risolvere gli ideali dell'autore.
Il Gattopardo è, in questo senso, pellicola pioniera: più o meno fedele al materiale letterario di partenza, è, in fondo, un film sulla morte. O meglio: un film sulla preparazione alla morte, morbosamente analizzata in ogni dettaglio anticipatore dal principe protagonista, quel Fabrizio Tomasi di Lampedusa (grandiosamente interpretato da Burt Lancaster nel corpo, e da Corrado Gaipa nella voce dell'edizione in lingua italiana del film) che guarda con malinconico cinismo alla fine dell'aristocrazia siciliana pigra e assonnacchiata, ammettendo la propria sconfitta e, al contempo, l'ascesa di un nuovo ceto in grado di sostituirla. Lavorando per ricucire le ultime smagliature, prima della debacle finale e dell'oblio.
Sarebbe opportuno – come in molti hanno già fatto – dividere il film di Visconti in tre blocchi, mai monolitici ma caratterizzati da fluida sequenzialità:
-La prima parte è quella che riterremmo opportuno definire dello svelamento: Visconti ci conduce a prender visione dell'universo in decadenza del principe di Salina, illustrando abitudini, saloni, terrazze, osterie, case popolari e lenzuola. Preghiere, com'anche nell'incipit del romanzo: l'autore è pronto a disvelare poco a poco tutti gli ambienti, con la macchina da presa che ondeggia sinuosamente e si diverte a raffigurare vizi e virtù di una categoria a sé, quella dei siciliani, in preda a violente trasformazioni. A riguardo, il personaggio di don Fabrizio ha le idee abbastanza chiare, bene assecondato dall'idea di regia di Visconti, che lo bracca con costanza quasi a voler marcare un'aderenza pressante tra identità del personaggio e quella del regista (che pure Visconti non fosse del tutto immune agli stravolgimenti della cinematografia di quegli anni?): «Il ceto medio non vuole distruggerci, vuole prendere il nostro posto», ammette. E ragiona con l'amico prete (uno straordinario Romolo Valli), tra i cannocchiali che definiscono la sua passione per l'astronomia, sulle differenze sostanziali tra la decadenza della sua classe e quella della Chiesa, alla luce di una nuova realtà: quest'ultima ha l'obbligo di tener fede alla propria eternità e sacrificarsi per l'umanità se necessario. I suo ceppo d'appartenenza – come ogni categoria sociale – no.
-«Questi gloriosi, nuovi tempi ci daranno delle strade migliori?» chiede don Fabrizio all'amico e consigliere, padre Pirrone. È il blocco della strategia: nei saloni di Donnafugata, incredibile
-Terza e ultima parte è quella della mortalità: il principe di Salina è costretto dalla moglie (la bravissima Rina Morelli) e dai residui delle convenzioni del suo ceppo a partecipare a un'estenuante ballo in un palazzo nobiliare di Palermo. Questa lunghissima festa, che occupa interamente il terzo blocco del film, è l'estensione finale del disagio di Fabrizio: lunga, inamidata, soffocante e afosa, come la sua coscienza. Che si arrabatta tra consapevolezza della fine e orizzonte di sguardo limitato nei confronti del mondo nuovo: è per questo che il sensuale ballo con Angelica non rappresenta tanto l'unione tra due universi sociali diversi, quanto la sua ultima possibilità di salutare la sua essenza di uomo e maschio (anche sotto il punto di vista sessuale) agguantando la pulzella con vigorosa rapacità, battendo il nipote anche nelle sole intenzioni . È un ballo che diventa amplesso: ed è il saluto di don Fabrizio alla carnalità, parallelamente all'addio a ogni aspirazione civile e sociale. Emblematico è, poco prima, il netto rifiuto consegnato al governatore sabaudo Chevalley: Fabrizio nega a se stesso l'occasione d'esser nominato senatore e rimbalza la palla dorata suggerendo il nome di Sedara. Noi fummo gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno i sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore continueremo a sentirci il sale della terra, confessa all'ambasciatore dopo aver declinato l'invito, La scelta di partecipare al ballo e di danzare con la futura moglie, quindi, si inserisce nella volontà precisa di appropriarsi temporaneamente delle sue antiche virtù di maschio. Quando la festa finisce finisce, ritorna alla sua condizione di relitto, saluta gli altri invitati-detriti, si inginocchia all'alba di un piazzale solitario e diroccato: con Il Gattopardo Visconti rende omaggio non solo al romanzo politico e civile di Tomasi di Lampedusa, non solo all'immobile sonno dei siciliani che mai vorrebbero esser svegliati (nemmeno da doni e mirabili preziosità), ma soprattutto al canto del cigno di un individuo. È vero: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Eppure la figura di Fabrizio si presta a infinite rappresentazioni, tragicamente contemporanee, virtuosamente poco definibili: è per questo che il film di Visconti resta grande, sempre.