Spike Jonze la brillantezza, Spike Jonze l'intelligenza. Nel nuovo film del regista de Il ladro di orchidee, dopo la parentesi solo in apparenza estranea e spiazzante rispetto al suo stile di Nel paese delle creature selvagge, queste due qualità si respirano in quantità industriale.
Il merito è soprattutto di una scrittura di grazia e freschezza sopraffine che dimostra l'eccellente qualità della penna di Jonze, il cui sguardo è qui sgravato da ogni influenza a lui esterna, dall'arzigogolato e tormentato aplomb cervellotico di Charlie Kaufman. Trionfa allora la delicatezza, il brio sarcastico di un'effervescenza romantica che sa divertire con un mix efficace di semplicità e raffinatezza, sposando l'arietta da commedia sofisticata alla '' grevità'' irriverente - giusto per fare un esempio - di un robottino sboccato e parolacciao con cui il protagonista interagisce in sede virtuale.
Lui, Theodore Twombly, interpretato da un Joaquin Phoenix misurato e nostalgico, che dopo la fine del suo matrimonio si ritrova ad instaurare un rapporto sempre più profondo con la voce femminile del suo pc, si porta addosso l'aura immalinconita di una storia che muove da questa premessa surreale per andare oltre i tempi comici comunque perfetti della commedia romantica di vocazione fantascientifica. Tuffandosi così fin da subito nell'anacronistica incorporeità dei sentimenti umani, in un amore non carnale che può nascere anche dalla vibrazione tentennante di una corda vocale o da un'inflessione piuttosto che un'altra. Her ci parla allora la lingua di un romanticismo meravigliosamente disincarnato, che permea i chip e dà loro vita e colore, nonché dei meravigliosi lampi di luce non inferiori a quelli della fotografia dell'immenso Hoyte van Hoytema, di fatto un elemento espressivo aggiunto che pervade le immagini del film e ne radicalizza il biancore perlaceo e la forza visiva.
Jonze, proprio come l'artista Twombly che del protagonista di Her è (casualmente?) omonimo oscilla tra la forma curata nei minimi dettagli della pittura e l'immediatezza più estemporanea ma non per questo meno rigogliosa del disegno: tratteggia i personaggi in modo encomiabile anche quando sembra lasciarli volutamente un po' più abbozzati, sospinto da un'ansia comunicativa che muove dal linguaggio verbale per stabilire affinità, mondi umani ed emotivi, categorie del pensiero e dell'innamoramento ancor prima che del comportamento.
Jonze ha il merito di non riflettere sui postumi dell'alienazione dei rapporti 2.0, di affidarsi a un salutare disimpegno che gli permette di mirare allo stesso tempo più in alto, a una scontatezza meno banale e intellettualistica, lontane da tematiche abusate e telefonate. Evoca il calore della complicità abbattendo le barriere dell'assenza e fa pulsare di sfumature le parole di Scarlett Johansson, di una sensualità che non ti aspetteresti mai da un Sistema Operativo. Racconta di due solitudini avvicinando dei modi di pensare in gran parte diversificati, e poco importa se uno abbia un corpo effettivo e l'altro sia invece pensiero dotato di affettività ma immateriale e fluttuante, imprigionato nell'angusta iperfunzionalità di un computer. La polarità che li lega è una chimica che supera la fisica e la logica per abbracciare l'onda anomala di un'intima connessione esistenziale, identificando nella reciproca incompletezza la ragione profonda per scrutarsi e forse amarsi, senza vedere e senza essere visti.
Voto: 3,5/4