Ci si aspettano grandi cose da Història de la meva mort. Pardo d’Oro al Festival di Locarno 2013, il film del giovane catalano Albert Serra (classe 1975) ha fatto molto parlare di sé e in effetti non poteva essere altrimenti, a partire dalla scelta dei protagonisti. Serra, per la sua opera di monumentale complessità, sceglie due figure d’eccezione della storia culturale d’Occidente, opposte e complementari, con in comune il gusto per la seduzione: Giacomo Casanova e il Conte Dracula. Detto così potrebbe sembrare quasi grottesco. E invece l’eleganza è una cifra stilistica che non manca nell’opera, interamente illuminata senza ausili artificiali, come già era stato per il Barry Lyndon di Kubrick.
Gli intenti di base sono altissimi: raccontare il declino dell’Illuminismo, agonizzante e infine morente, per mano del Romanticismo, o, detto in altre parole, rappresentare la luce (della ragione) che si spegne poco a poco, fagocitata dal buio del sentimento. Difficile tenere testa a questo proposito magniloquente, e che denota non poca arroganza: e, infatti, il regista finisce per inciampare nelle stesse cappe settecentesche in cui avvolge il suo fine, a tratti inestricabile, ragionamento filosofico, finendo per realizzare un film non riuscito, ma comunque interessante.
Il Casanova di Serra è più un Aschenbach, ingiallito, invecchiato, pateticamente acciaccato, e come tutti gli anziani è logorroico, paternalistico, ripiegato sulla propria (per quanto ricca) esperienza biografica, poco attento al mondo esterno. Continua a sedurre fanciulle che però rispondono con poca partecipazione alle sue carezze: sembrano distaccate, più concentrate sul proprio piacere che sull’amante.
Au contraire, Dracula, pur con un’inedita barba e un aspetto più maturo della media cui l’iconografia ci ha abituati, possiede e infiamma di passione le proprie vittime, le fa sue, le invade con il fascino del lato oscuro, senza sprecare parole inutili. Quanto l’uno è ciarliero, fanfarone, pieno di elucubrazioni e assiomi sul senso della vita, tanto l’altro è silenzioso, mistico, svuota le parole di senso e lo riversa nella sensazione.
La luce fioca delle candele e quella fredda della campagna sono destinate a estinguersi, mentre tutti intorno scivolano nell’oscurità. L’unico a non capire che la vitalità vera, quella eterna, risiede nel buio è il servo grasso, vox populi dell’homunculus della strada, che al vecchio padrone, tetro e depresso (il Conte) preferisce quello nuovo (Casanova), sempre allegro e pieno di voglia di vivere, viaggiare e correre dietro alle sottane.
Ma quello che il servo non può capire è che l’Illuminista crede di possedere il segreto della vita, ma rimane un corpo fragile, schiavo della morte e delle pulsioni più basse, mentre il romantico ha superato la morte grazie alla possessione passionale, scoprendo così la vita eterna.
Un’opera faticosa, cervellotica, impossibile da fruire per il pubblico, estenuante nella sua durata e nel suo trascinarsi lento, agonizzante come quello del noto seduttore veneziano. Eppure anche un’opera coraggiosa nella sua arroganza, una riflessione importante e un atto cinematografico tanto estremo quanto sentito.
Voto: 2,5/4