Cesare Romiti parla di conflitto d'interessi, dimenticando quello che fece la Fiat con la stampa quando ne era a capo. Il patron di Tod's attacca Geronzi, ma per tornaconto personale
Alessandro Sallusti per ilGiornale
Dopo un lungo periodo di assenza, Romiti ieri è tornato in tv, ospite di Maria Latella (sua ex giornalista) nel pomeridiano di Sky. Tra l'altro ha detto: spero che Mediaset non si interessi alla carta stampata perché sarebbe un duro colpo alla libertà di informazione. Ha poi dubitato con sarcasmo delle parole di Fedele Confalonieri, che nei giorni scorsi aveva definito stupidaggini le voci su possibili ingressi di Mediaset nella proprietà di importanti quotidiani.
Sono convinto che Confalonieri non mente, ma resta comunque triste vedere un ex grande dell'impresa italiana allinearsi all'antiberlusconismo militante pur di strappare un ultimo titolo di prima pagina, farsi strumento del Santoro di turno. Ma chi vuole prendere in giro, dottor Romiti? Nei suoi giornali (io ci sono stato) non si poteva scrivere non dico una notizia ma neppure una riga che Fiat (cioè lei) non volesse, ligi al motto: ciò che serve a Fiat serviva al Paese. E questo accadeva non solo nei fogli di proprietà diretta o indiretta. Attraverso la ragnatela del potere e i soldoni della pubblicità, il condizionamento della carta stampata e della magistratura era generale. Scontato che Fiat (le sue aziende, le sue banche, le sue assicurazioni) era intoccabile, lei crede, dottor Romiti, che qualche pm, direttore o cronista, durante il suo regno fosse libero di indagare sui conti esteri della famiglia Agnelli? Di curiosare tra i giovani amorazzi dell'Avvocato, che in quanto a bunga bunga la sapeva più lunga di Berlusconi? Di infangare la real casa pubblicando, per esempio, i veri motivi che portarono al suicidio del povero Edoardo?
Se questo Paese ha perso molti treni non è soltanto perché quelli costruiti dalla Fiat erano inadeguati (ricordate i primi pendolini, sempre fermi in mezzo alla campagna?) ma anche per il tappo che l'era tanto cara a Romiti provocò sulla libertà di informazione. Il più colossale conflitto di interesse mai visto in questo Paese non è quello che oggi Romiti paventa ma quello di cui lui fu, impunemente, artefice e protagonista.
L'ex numero uno di Fiat non è in queste ore l'unico furbetto della comunicazione. Sempre ieri Diego Della Valle, imprenditore di successo (Tod’s e non solo), ha sferrato un violento attacco a Cesare Geronzi, presidente delle Generali. Le Generali sono una delle più grandi casseforti private del Paese, tanto grande da poter incidere sul futuro della stabilità del sistema Italia forse anche più del governo stesso. Questo concetto, direi questa responsabilità, è ben presente a Cesare Geronzi che di conseguenza dirige i lavori a modo suo, che è poi quello dell'interesse degli azionisti prima di tutto ma con un occhio a interessi generali. Ciò non è una cosa disdicevole. Dal punto di vista strettamente di mercato e di redditività, probabilmente sarebbe stato più conveniente vendere l'Alitalia ai francesi, o Telecom agli spagnoli, tanto per fare due esempi concreti. Se così fosse stato oggi saremmo l'unico Paese occidentale a dipendere dall'estero per la telefonia e il trasporto aereo.
Ma questo rischio non è considerato tale da imprenditori che evidentemente e legittimamente, pur arrivando per meriti nel cuore del sistema finanziario del Paese (Della Valle è nel consiglio di amministrazione di Generali), pensano sempre, comunque ed esclusivamente agli affari loro. Che se poi di questi affari ( investimenti in grattacieli francesi, banche russe o nuovi treni italiani via consociate estere) non se ne sa nulla, neppure in consiglio di amministrazione, tanto meglio. Geronzi è accusato di voler capire che cosa succede nella più grande impresa italiana che gli è stata liberamente affidata. Non mi sembra un reato, anche se capisco che la cosa possa innervosire chi pensava che fosse giunto il momento di poter fare gli affari propri senza troppi intralci. In questo la parabola di Della Valle assomiglia molto a quella di Gianfranco Fini: rompere con il grande capo per ottenere qualche vantaggio personale. Fini sbagliò parole, modi e tempi. Della Valle vedremo.