Quando sono a Milano e ho una mezz’ora buca, tipo stamattina, spesso mi infilo in libreria e sto vicino allo scaffale apposito a sconsigliare alla gente i libri di Vittorino Andreoli*.
Questa volta, poi, la cosa è andata particolarmente bene, le persone mi davano retta per partito preso: ho dissuaso tre potenziali compratori in neanche venti minuti. Alla fine ero così di buon umore che mi sono presa un po’ di tempo per andare in un’altra sezione a fissare con sufficienza quelli che prendevano in mano il libro di una che a me sta antipatica. Sono una persona squisita.
(A questo punto, peraltro, complici l’ora tarda e la consapevolezza della mia non comune capacità di comunicare il disprezzo senza realmente corrugare la fronte, inizio a considerare una svolta in senso letterar-dissuasivo della mia futura carriera – carriera che fino ad oggi era remunerativamente orientata verso la figura professionale del Passeggero Rassicurante TM)
(Passeggero Rassicurante TM: non importa quanto di merda voi guidiate, io starò lì seduta con l’aria più serena del mondo, a fare allegramente finta di nulla anche quando per errore innesterete improvvisamente la retromarcia mentre procediamo a velocità sostenuta lungo un viadotto dissestato. Finora l’ho fatto per amicizia, ma in un’ottica lavorativa pensavo di chiedere 50 euro per la mezz’ora.)
(Un’altra maniera per definire il Passeggero Rassicurante TM, questa volta per luminosa contrasto, è un ritratto fotografico del mio illustre moroso, bianco in volto, spasmodicamente aggrappato alla maniglia di cortesia di un’auto da me condotta a velocità estremamente ragionevole su strade prive di qualsiasi elemento anche solo potenziale di minaccia. L’immagine funziona anche come sinonimo di “stronzo malfidato” e “adesso, amore, io accosto e tu scendi”.)
Oltre al blitz in libreria, dicevamo, stamattina (già che mi ero alzata alle sei e rotti e mi ero allontanata di venticinque chilometri dal letto) ho trovato almeno altre due maniere di adoperare, nell’attesa che si facesse l’ora di andarmene a pranzo, i miei numerosi talenti e la mia recentemente acquisita e pressoché infinita riserva di tempo libero.
La prima è stata azzardarsi ad andare a fare pipì, compito che, data l’ingannevole e spietata semplicità della pianta dell’ateneo unita alla mia sempre spassosa (no) mancanza di qualsiasi anche minima parvenza di senso dell’orientamento, si tramuta ogni volta in una sgambata di mezz’ora e almeno due giri completi del circuito degli ambulacri. (Ora che trovo il bagno, i reni mi sono entrati in regime straordinario di recupero liquidi tipo siccità prolungata, però una lavatina alle mani già che sono lì me la do comunque, male non fa, e perlomeno non ho fatto la strada per nulla).
La secondo è consistita nel presenziare, io, il mio Mars sbocconcellato e la mia ingiustificabile alterigia, nelle foto di laurea di almeno una dozzina di persone differenti, ivi inclusa una che si è presentata alla discussione in tailleur sinteticissimo blu elettrico e camperos intarsiati, una che nella foga le ha perse, le scarpe (non erano camperos) e una a cui, appena proclamata, una delegazione di amici e parenti ha consegnato un’ingombrante teoria di pupazzini pseudo-antropomorfi fatti con i palloncini. E io sullo sfondo, scatto dopo scatto. Muta testimone delle miserie del mondo. Consumatrice entusiasta di prodotti dolciari di dubbia qualità. Vagamente allucinata. Intenta a redigere queste umili e poche righe. Comunque bella.
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* Lui, precisa, non è parente.