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I "giganti nuragici" parleranno il sardo a Pechino?

Creato il 06 agosto 2010 da Zfrantziscu
La trasferta a Pechino, a Reggio Calabria e chissà dove altro, delle statue di Monti Prama può essere letta sotto due aspetti. Uno negativo, sia pure legittimo a Statuto sardo vigente; uno positivo, anzi molto positivo. Il primo aspetto, su cui varrà la pena tornare quando dal mese prossimo si affronterà la scrittura del Nuovo Statuto speciale, è che diventa sempre più intollerabile il concetto proprietario, che anche un funzionario dello Stato si può permettere di esibire, della nostra storia che era già storia quando mancavano tre migliaia di anni ai primi vagiti dell'Italia intesa come Stato. Il secondo aspetto, quello positivo, è che la grande statuaria nuragica comincerà ad essere conosciuta nel mondo. E ad essere sottratta al provincialismo in cui parte dell'archeologia sarda si è avvitata.
Comunque sia, sono seriamente preoccupato per le derive identitarie, non so se solo autonomiste o anche nazionaliste, cui vanno incontro gli autori dell'annuncio delle prossime trasferte di “una delle grandi scoperte archeologiche degli ultimi decenni” (parola del direttore archeologia del ministero dei Beni culturali, Stefano De Caro) e dello “esempio straordinario della cultura sarda e mediterranea” (parola del direttore generale del Ministero dei Beni Culturali, Mario Resca). Comunque affari loro, se la dovranno vedere con alcuni archeologi sardi che. sì, è vero sono cose interessanti, ma non è il caso di esagerare, paragonandole con la statuaria greca che le ha precedute.
Si parla oggi di datazioni molto più alte (X-XI secolo) di quelle della vulgata casareccia, VI o VII secolo avanti Cristo, il tutto bello piazzato nell'orizzonte fenicio. Ho conservato, e ve ne ripropongo la parte centrale, una dichiarazione fatta il 6 febbraio 2009 dall'allora assessore della cultura, Maria Antonietta Mongiu. Parlando della sua visita a Li Punti, dove si stavano restaurando le statue, disse, fra l'altro: “I microscopi elettronici di ultima generazione ed il supporto dei saperi storici più convenzionali restituiscono quadri cronologici che fanno scricchiolare cronologie consolidate”. E ancora: “Il restauro acclara dettagli e particolari ma soprattutto evidenzia la grandezza di una civiltà che si sta rivelando come una delle più importanti del Mediterraneo, la cui storia grazie a loro andrà in parte riscritta”.
Maria Antonietta Mongiu è archeologa, ma allora parlava come assessore nel governo Soru. Di quel che disse allora, che io sappia, non ha più fatto cenno e non è detto che non abbia preferito, una volta tornata alla sua professione di archeologa, lasciar riposare in pace le “cronologie consolidate”. Ma ieri, a Li Punti insieme al direttore dei Beni culturali, è stata l'archeologa Antonietta Boninu, che ha diretto i restauri, a dire, con tutta la sua prudenza, di privilegiare l'ipotesi che le statue siano state scolpite nel decimo secolo avanti Cristo, nel periodo del bronzo finale.
Questo – ma lo sapevamo tutti da un pezzo – nulla toglie e nulla aggiunge alla grandiosità di quelle statue. Ma, come disse l'assessore Mongiu, la storia del Mediterraneo, grazie ad esse, andrà in parte riscritta. Anche la luce dell'Oriente non sarà per questo meno splendente, laddove ci fu. Ma, appunto, là dove in quel torno di XI-X secolo si sparse. Nel provincialissimo mondo accademico sardo, insieme con le certezze cronologiche che oggi non sono più certezze, con i sofismi “la grande statuaria è nata in Grecia e quindi...”, l'ha fatta da padrone un senso di immobilismo culturale che se non impedito ha certo ostacolato le ricerche di chi, dentro e fuori dell'università, ha osato l'eresia.
Mai il mio vecchio cuore sardista avrebbe pensato di dover ringraziare un alto funzionario dello Stato italiano per la sua decisione di sdoganare, a 36 anni dalla loro scoperta, le grandi statue di Monti Prama. E di continuare gli scavi in quel sito che ancora nasconde risposte che non si sono volute cercare. Da quelle parti, tanto per dire, sono state trovate le tavolette di Tzricotu, lasciate, come è noto, da qualche viandante longobardo di passaggio.

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