All’apparenza, è una storia semplice, già vista mille volte, anche da me, a Londra, nell’ultimo viaggio. Lassù, i miei amici, più o meno miei coetanei, sono in gran parte soddisfatti del proprio lavoro: insegnanti, giornalisti ben pagati, dottorandi, tecnici audio e video… Se sei sveglio, a 25 anni fai già il manager da qualche parte, britannico o straniero che tu sia. Qui, i miei amici fanno fatica a trovare qualcosa che gli piaccia, con poche eccezioni. Chi non fa il commesso è impiegato; chi vuole altro, a meno che non abbia un grande spirito imprenditoriale, se ne va. E ogni giorno se ne va qualcuno.
Quindi: bello essere giovani all’estero, brutto qui. Però la situazione non è così semplice. Spesso, a parità di situazioni, i miei amici in Italia si lamentano molto di più. I miei amici all’estero suonano, ma non pretendono di vivere di musica, per esempio. Chi fa ricerca, è comunque costretto a dei sacrifici economici, oppure ha dei soldi da parte. Una mia amica non può fare figli finché non finisce il dottorato, perché è quasi certo che la butterebbero fuori. E’ chiaro che non c’è solo Londra, e che la nostra è una situazione particolarmente critica, ma non agli estremi che ci si fa credere. Ho amici anche qui con lavori di responsabilità, anche se giovani (o stranieri).
Ma c’è dell’altro. Il punto è che a Londra, come qui, come ovunque, ci vuole anche gente che pulisca i cessi, lavi le pentole in cucina, spazzi le strade, venda merce nei negozi – e nella stessa proporzione, grosso modo, in cui queste mansioni sono richieste qui. E allora chi lo fa?
Lavorando in una mensa con quasi solo africani e gente dell’Europa dell’Est, ho iniziato a vedere le cose in altro modo. Mi rendo conto che la qualità dei lavori accessibili ai giovani non è una conseguenza tanto della meritocrazia, dell’apertura al talento, della dinamicità culturale ed economica, che pure sono fattori. Il punto, secondo me, è che le disuguaglianze globali (sempre loro!) rendono molto difficile l’accesso a certe professioni da parte di certe categorie di persone. Sicuramente, c’è mobilità, ma quanta, veramente? Non lo so. Tra le persone con cui ho lavorato nelle mense e nei grandi eventi, c’erano donne la cui principale occupazione era crescere i figli, e a cui non importava che lavoro facevano, e giovani che sarebbero tornati in patria con una buona conoscenza dell’inglese, e che quindi speravano di trovare lavori migliori. E quindi, qualcun altro dovrà pulire i cessi e lavare le pentole per loro.
Di nuovo, mi sto infognando in generalizzazioni troppo difficili, e ci sarebbero troppe cose da dire. E non posso negare che le opportunità lavorative da queste parti siano poco incoraggianti. Però qui c’è una realtà matematica: per ogni ricercatore, artistista, insegnante, e così via, ci saranno sempre, sempre, più persone che dovranno servirgli da mangiare, pulirgli gli uffici, vendergli i calzini… e chi saranno, queste persone? Quelle che vogliono, o quelle che devono?