Quello in cui Matt Demon fugge inseguito da qualcuno è un genere consolidato del cinema americano, alla pari del thriller o della commedia sentimentale. C'è lui che corre puro e idealista e ci sono quelli con il volto di ghiaccio che lo inseguono. E' facile, basta avere i soldi per ingaggiare la star e il film viene da sé. Con I guardiani del destino, uscito oggi nelle sale, l'agente segreto Bourne diventa un politico con il destino segnato e la voglia di affermare la propria libertà d'amare, contro il fantasma della coercizione assoluta (e naturalmente è il libero arbitrio a trionfare, salvo accettare quel tanto di inesplicabilità divina che fa tornare in auge il concetto manzoniano di provvidenza...). Il film è piccolo piccolo, ha il respiro corto e forse non abbastanza soldi per essere spettacolare come vorrebbe, ma ha cose decisamente interessanti. Ad esempio la solita ma sempre affascinante atmosfera alla Philip K. Dick, con l'innesto della fantascienza in una dimensione realistica; o il ricorso a una tecnologia sempre più naturalizzata, con la creazione di quaderni così tecnologici da respirare di vita propria (dei veri e propri iPad, insomma); o ancora la riflessione sullo spazio della metropoli come luogo principe dell'immaginario contemporaneo. Come un'emanazione minore di Inception, I guardiani del destino trasforma infatti New York in un campo aperto, uno spazio fluido e comunicante reso tale dall'iconografia della città. I suoi spazi riconosciuti e riconoscibili - la Statua della libertà, il MoMA, i docks di Brooklyn, lo stadio dei Metz - sono i luoghi della fuga e si susseguono l'uno all'altro fornendo al protagonista i vari passaggi verso la liberazione. Non dico come tutto ciò avvenga, ché è la cosa migliore del film, ma il modo in cui I guardiani del destino crea il proprio spazio, la libertà espressiva con cui attraversa e ripensa New York riprova quanto il cinema contemporaneo cerchi una via espressiva soprattutto dialogando con l'immaginario degli spettatori e con la loro conoscenza pregressa di icone, miti e memorie. Il discorso diretto tra film e spettatore non esiste più da decenni e oggi si articola di rimandi, riferimenti, citazioni, sogni dentro sogni dentro altri sogni, oppure vite imprigionate guidate da volontà esterne. Niente è più per caso, o per semplice voglia di raccontare, tutto è una re-visione, un percorso già tracciato. E film come I guardiani del destino non fanno altro che riflettere il nostro famigrato Zeitgest.
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Quello in cui Matt Demon fugge inseguito da qualcuno è un genere consolidato del cinema americano, alla pari del thriller o della commedia sentimentale. C'è lui che corre puro e idealista e ci sono quelli con il volto di ghiaccio che lo inseguono. E' facile, basta avere i soldi per ingaggiare la star e il film viene da sé. Con I guardiani del destino, uscito oggi nelle sale, l'agente segreto Bourne diventa un politico con il destino segnato e la voglia di affermare la propria libertà d'amare, contro il fantasma della coercizione assoluta (e naturalmente è il libero arbitrio a trionfare, salvo accettare quel tanto di inesplicabilità divina che fa tornare in auge il concetto manzoniano di provvidenza...). Il film è piccolo piccolo, ha il respiro corto e forse non abbastanza soldi per essere spettacolare come vorrebbe, ma ha cose decisamente interessanti. Ad esempio la solita ma sempre affascinante atmosfera alla Philip K. Dick, con l'innesto della fantascienza in una dimensione realistica; o il ricorso a una tecnologia sempre più naturalizzata, con la creazione di quaderni così tecnologici da respirare di vita propria (dei veri e propri iPad, insomma); o ancora la riflessione sullo spazio della metropoli come luogo principe dell'immaginario contemporaneo. Come un'emanazione minore di Inception, I guardiani del destino trasforma infatti New York in un campo aperto, uno spazio fluido e comunicante reso tale dall'iconografia della città. I suoi spazi riconosciuti e riconoscibili - la Statua della libertà, il MoMA, i docks di Brooklyn, lo stadio dei Metz - sono i luoghi della fuga e si susseguono l'uno all'altro fornendo al protagonista i vari passaggi verso la liberazione. Non dico come tutto ciò avvenga, ché è la cosa migliore del film, ma il modo in cui I guardiani del destino crea il proprio spazio, la libertà espressiva con cui attraversa e ripensa New York riprova quanto il cinema contemporaneo cerchi una via espressiva soprattutto dialogando con l'immaginario degli spettatori e con la loro conoscenza pregressa di icone, miti e memorie. Il discorso diretto tra film e spettatore non esiste più da decenni e oggi si articola di rimandi, riferimenti, citazioni, sogni dentro sogni dentro altri sogni, oppure vite imprigionate guidate da volontà esterne. Niente è più per caso, o per semplice voglia di raccontare, tutto è una re-visione, un percorso già tracciato. E film come I guardiani del destino non fanno altro che riflettere il nostro famigrato Zeitgest.
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