Cosa fareste se un giorno qualcuno vi dicesse che la vostra vita è già stata prevista e la donna di cui vi siete innamorato non rientra in quel programma? Questo è quello che succede a David Norris politico idealista dal futuro luminoso dopo aver incontrato Lisa, ballerina classica altrettanto talentuosa. Il film è tutto qui, concentrato in questa domanda a cui il protagonista tenterà di rispondere sfidando un destino che non esiste e il sistema che lo sovrintende, una sorta di organizzazione parallela organizzata come una loggia massonica e dotata di un esercito di Man in black (I guardiani) capaci di viaggiare nello spazio e di prevedere le mosse delle loro prede.
Tratto dall’omonimo racconto di Philip Dick, da anni ancora di salvezza per la fantascienza in celluloide, "I guardiani del destino" è il realtà il frutto di una sceneggiatura messo a punto dallo stesso regista, in passato autore di script come "Ocean twelve" e "The Bourne ultimatum", e qui all’ esordio dietro la macchina da presa. Così condividendo con la sua fonte l’incipit che assegna al caso il compito di svelare le oscure macchinazioni che regolano l’esistenza delle persone aggiustando eventuali scostamenti, e pur mantenendo inalterata la dialettica tra “Controllo e libero arbitrio”, proposta sistematicamente nei tentativi di Norris di sganciarsi dai suoi controllori, George Nolfi li sviluppa in maniera autonoma, facendoli dipendere da una love story inserita per l’occasione che, alla pari di un film come "Inception", tanto per fare un nome, funziona non solo come motore della storia ma assegna nuovamente alla figura femminile un ruolo decisivo.
Filologia ed innovazione vanno quindi di pari passo nella scrittura di un film capace di proporre soluzioni piuttosto curiose anche nella creazione di un background fantasmagorico che preleva direttamente dal quotidiano (i Guardiani si servono di oggetti d’uso comune per dare vita alle loro magie) per trasformarlo in uno strumento di potere, contribuendo a mantenere la storia nell’alveo del verosimile ed anche a definire un estetica che ha la complessa semplicità del b- movie. Ma il segno caratteristico della pellicola, come si sarà già capito, è soprattutto la convivenza di un dualismo che la vicenda propone dentro e fuori lo schermo. In questo senso contribuiscono alla causa una serie di fattori da ricercarsi per esempio nel modo in cui il film fa convivere l’eccezionalità dei personaggi con la normalità delle loro azioni (le occasioni del contatto, nel marciapiede di una strada, nel bagno di un hotel oppure sui sedili di un autobus rimandano anche per la funzione di quei luoghi a mondanità di gente comune), oppure nella confronto tra un potere legittimo, ribadito dalle regole che il candidato Norris deve seguire per vincere le elezioni, ed uno occulto, svincolato da qualsiasi disciplinamento istituzionale e rispondente a misteriosi meccanismi, per non parlare della scelta che ad un certo punto investe il protagonista costretto ad ubbidire per evitare il ribaltamento di una vita che per lui e la sua amata si annuncia favoloso, fino ad arrivare agli aspetti produttivi, imprescindibili per un opera che vuole stare sul mercato in maniera competitiva, e che hanno caratteristiche da blockbuster, per il supporto di una Major come la Universal, ma budget da operazione indipendente.
Certamente non mancano certe scorciatoie come quella di dotare il personaggio di David Norris di un pedigree eccessivamente empatico (il giovane non solo è orfano ma ha perso fratello e genitori) e politicamente corretto (nei discorsi della campagna elettorale fanno capolino le ombre di Kennedy ed Obama ed in generale si respira aria di un ennesimo new deal di cui il personaggio si farebbe portatore) oppure di sfruttare al meglio la semina altrui, proponendo soluzioni visive ampiamente sfruttate, soprattutto nell’ architettura degli ambienti che in un incrocio tra antico e moderno riproducono una città fuori dal tempo (stiamo parlando di New York), caratterizzata ed allo stesso tempo anonima, capace di rappresentare un esistenzialismo fatto di moltitudine e rarefazione e rendendo in maniera concreta il senso di quel "doppio" che si manifesta davanti agli occhi del protagonista. Labirinti urbani e della mente dove i personaggi si muovono in preda ad uno straniamento reso da una fotografia deformata, con pareti che assomigliano a montagne, e spazi ripresi in prospettiva, profondi come una gola che sta per inghiottire, e slabbrati da un fattore umano ormai risibile. Ma le contaminazioni - si parla anche di un ispirazione dalla fiction televisiva “The lost room” per quanto riguarda la “soprannaturalità” degli oggetti di uso comune - fanno ormai parte del cinema moderno e ad un prodotto come "The Adjustment Bureau" si chiede solo di utilizzarle nel modo migliore. Ed in questo il film di Nolfi ci riesce.
(pubblicata su ondacinema.it)