THE ADJUSTMENT BUREAU (Usa 2011)
Sent.-Fant.: ecco la definizione di questo film che troverete sui dizionari di cinema se mai in futuro vi verrà in mente di cercarlo. Cosa che all’inizio mi ha un po’ spiazzato: “Ma come, un film di fantascienza che invece di concentrarsi su botte, esplosioni e armi strane parla di una storia d’amore, e lo fa pure in modo alquanto patetico?”. Poi però mi sono ricordato di altri film che in passato hanno percorso più o meno la stessa strada. 2046, per esempio. O persino Solaris e il recente Source code. L’unica, piccola differenza è che Wong Kar-wai, Tarkovskij e Duncan Jones una cosa del genere l’hanno saputa fare bene. George Nolfi, chiunque esso sia, no.
La storia, ancorché stupida e improbabile, è piuttosto semplice, e ci viene spiattellata con un lungo e noioso spiegone dopo appena venti minuti di pellicola: David Norris è un politico in ascesa che si innamora di Elise, una ballerina. Ma ad alcune strane entità (“siete angeli?” “puoi chiamarci così”) questa cosa non piace, in quanto nel “libro del destino” o qualcosa del genere questa storia d’amore non è prevista. Le entità cercano allora, con ogni mezzo, di allontanare i due piccioncini, che però si oppongono, pure loro con ogni mezzo. E alla fine (spoiler) l’amore trionfa. Fine della storia.
Ora, non vi inganni il fatto che questo film è tratto da un romanzo breve di, rullo di tamburi, Philip K. Dick: io questo racconto non l’ho mai letto e fino a ieri non ne sospettavo nemmeno l’esistenza, ma sono sicuro che il nostro buon Nolfi, chiunque esso sia, anche autore della sceneggiatura, ci abbia messo del suo, trascurando tutto ciò che di buono c’era in Dick e spingendoci dentro a forza tutte le robe patetiche o noiose o ridicole che rendono il film la merda che è. Per esempio quel corso di storia accelerato for dummies messo in bocca a una di queste entità – per la cronaca soprannominata Martello: “Dall’età della pietra all’impero romano siamo stati accanto a voi esseri umani, poi appena vi abbiamo lasciati soli è arrivato il Medioevo che era brutto e cattivo. Allora siamo tornati e vi abbiamo dato il Rinascimento e l’Illuminismo (l’inquisizione e lo sterminio degli indios in Sudamerica però non vengono citati, strano, ndr), poi vi abbiamo lasciato di nuovo da soli e avete fatto due guerre mondiali e la crisi missilistica di Cuba e allora siamo tornati ancora”. Roba così, che solo un americano di infima estrazione sociale può trovare sensata. In ogni caso di elementi stupidi in questo film ce n’è talmente tanti che solo a elencarli staremmo qui fino a domani. Ve ne dico ancora due, va’: sapete come fanno a spostarsi velocemente, questi guardiani del destino? Attraverso comunissime porte, ma indossando un cappello. E sapete cosa annulla i loro poteri? L’acqua. Viene dunque da pensare che un’isola senza porte sia potenzialmente un luogo immune dalle leggi del fato. Buono a sapersi.
Che poi è un vero peccato che la storia sia così campata in aria, dal momento che il film non è poi confezionato male: di colpi di genio non ce n’è, ma il livello delle immagini e degli effetti speciali è decisamente buono. Le musiche sono brutte, ok (ed è strano, perché Thomas Newman è un mito), ma per il resto tutto è sobrio e ragionato bene. A partire dall’ottimo cast, che comprende il solito Matt Damon (ormai mi piace per sfinimento: a forza di propormelo in 12 film all’anno questi geni di Hollywood mi hanno quasi convinto che sia un buon attore. Lui o il campione mondiale di body building che l’ha sostituito di nascosto negli ultimi tempi), Emily Blunt (già vista in – purtroppo – Wolfman), John Slattery (il Roger Sterling di Mad Men), Anthony Mackie (che verrà ricordato, o più probabilmente no, per essere stato protagonista del film più brutto di Spike Lee, She hate me) e, altro rullo di tamburi, Terence Stamp nella parte di Martello. Un pensiero finale a chi ha tradotto in italiano il titolo originale di questo film: i soliti burloni.
Alberto Gallo