Non tutta la pubblicità è buona pubblicità. Credo che la famosa frase di Oscar Wilde Che si parli di me, nel bene o nel male, purché se ne parli abbia fatto numerosi danni, creando un ingiustificato bisogno al mostrarsi pubblicamente senza badare all'immagine veicolata. Questo è valido soprattutto per le categorie che possiamo definire sensibili, perché generalmente vittime, a livello sociale, di pregiudizi e false credenze.Non penso soltanto al mondo omosessuale, scrivendo queste parole, ma a tutte le sottoculture (metropolitane e non) non socialmente riconosciute, che dovrebbero prestare particolare attenzione alla modalità di rappresentazione (e auto-rappresentazione). Penso ad esempio all'ultimo film di Sorrentino, che, senza spoilerare nessuno, mi è vagamente vicino a livello autobiografico e mi ha irrazionalmente innervosita. Questo non vuol dire che di alcuni argomenti, sottoculture, persone etc., non si possa parlare male, tutt'altro, il buonismo mi scatena davvero l'orticaria e amo quando film, telefilm et similia hanno il coraggio di affidare a personaggi sensibili ruoli negativi (come l'Imp di Games of trones o Michel J. Fox in The good wife), ma che sarebbe (carino? onesto?) importante rispettarne la verità.L'atteggiamento da bird watching non è utile a né al soggetto rappresentato, né a chi ne parla, meno che mai alla sciura Maria di turno che potrebbe essere informata su un aspetto che non conosce e che viene trattata, invece, alla stregua di un bambino a cui si finge di rubare il naso. Ecco, l'articolo di A di questa settimana sul corso di maglia per orsi si muove proprio su questi binari e, per quanto io sia incredibilmente orgogliosa del caro M. che ha conquistato un paginone con la sua barba rossa e i suoi ferri da maglia, non ho potuto che scuotere la testa leggendo il trafiletto sugli orsi grandi grossi e gay che amano la lana perché è morbida e ricorda loro i peli e invece odiano in tutti i modi l'effeminatezza. Perché come al solito si perde un''occasione, trasformando una realtà in una macchietta a due dimensioni, da guardare mangiando i pop corn e poi rimettere da parte.
Non tutta la pubblicità è buona pubblicità. Credo che la famosa frase di Oscar Wilde Che si parli di me, nel bene o nel male, purché se ne parli abbia fatto numerosi danni, creando un ingiustificato bisogno al mostrarsi pubblicamente senza badare all'immagine veicolata. Questo è valido soprattutto per le categorie che possiamo definire sensibili, perché generalmente vittime, a livello sociale, di pregiudizi e false credenze.Non penso soltanto al mondo omosessuale, scrivendo queste parole, ma a tutte le sottoculture (metropolitane e non) non socialmente riconosciute, che dovrebbero prestare particolare attenzione alla modalità di rappresentazione (e auto-rappresentazione). Penso ad esempio all'ultimo film di Sorrentino, che, senza spoilerare nessuno, mi è vagamente vicino a livello autobiografico e mi ha irrazionalmente innervosita. Questo non vuol dire che di alcuni argomenti, sottoculture, persone etc., non si possa parlare male, tutt'altro, il buonismo mi scatena davvero l'orticaria e amo quando film, telefilm et similia hanno il coraggio di affidare a personaggi sensibili ruoli negativi (come l'Imp di Games of trones o Michel J. Fox in The good wife), ma che sarebbe (carino? onesto?) importante rispettarne la verità.L'atteggiamento da bird watching non è utile a né al soggetto rappresentato, né a chi ne parla, meno che mai alla sciura Maria di turno che potrebbe essere informata su un aspetto che non conosce e che viene trattata, invece, alla stregua di un bambino a cui si finge di rubare il naso. Ecco, l'articolo di A di questa settimana sul corso di maglia per orsi si muove proprio su questi binari e, per quanto io sia incredibilmente orgogliosa del caro M. che ha conquistato un paginone con la sua barba rossa e i suoi ferri da maglia, non ho potuto che scuotere la testa leggendo il trafiletto sugli orsi grandi grossi e gay che amano la lana perché è morbida e ricorda loro i peli e invece odiano in tutti i modi l'effeminatezza. Perché come al solito si perde un''occasione, trasformando una realtà in una macchietta a due dimensioni, da guardare mangiando i pop corn e poi rimettere da parte.
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