Ormai dopo un paio di anni lo so: ci sono vari modi per iniziare il commento di un film, da una breve o meno breve sinossi ad una citazione dotta, partendo a razzo con qualche considerazione o tentando di allungare il brodo grazie ad un paio di informazioni collaterali se le idee scarseggiano.
J’ai tué ma mère (2009) mi obbliga però ad anteporre una data a qualsiasi altra prosecuzione:
20 marzo 1989
Se la matematica non è un’opinione il canadese Xavier Dolan ha interpretato e girato questo film all’età di 20 anni. Con una tale premessa anche le piccole critiche che una seppur buona pellicola come questa ha, si sgretolano, si dissolvono se rapportate all’esiguo numero di primavere sulle spalle del giovanissimo autore.
Perciò della preponderanza dei toni alti (leggi: urli) nei dialoghi e del conseguente nonché possibile fastidio nell’ascoltarli, o del non precisato legame fra Hubert e la sua professoressa, si preferisce tacere perché l’effervescenza filmica nella sua globalità doppia di gran lunga difettucci pur sempre riparabili in futuro trattandosi di un’opera prima.
Centra il bersaglio con grande stupore, almeno per il sottoscritto, l’autorità con cui Dolan maneggia il linguaggio cinematografico attraverso una ricercata sintassi fatta di svariati tic registici che vanno dalla riproposizione continua di piani frontali in ambienti chiusi dove lo sfondo scenografico si esalta, alle video-confessioni in bianco e nero con primi piani e dettagli sugli scudi, passando per tante altre sciccherie che allietano la visione come le scritte sovraimpresse sullo schermo di quello che i protagonisti leggono o l’uso oculato delle luci in scena con una conversazione madre-figlio in automobile che segue il peso e il tono degli argomenti trattati: alla fine sono solo due testoline nel buio.
Dettagli o meno, un film è fatto anche di questi e Dolan non li disdegna affatto.
Ciò che invece dettaglio sicuramente non è, è il rapporto che Hubert ha con sua mamma al quale si subordina il rapporto che il ragazzo ha con se stesso e con il mondo, un’esaltazione del labirinto adolescenziale in cui il protagonista si lascia smarrire in un vortice di sessualità e odio viscerale verso l’icona che incarna il mondo adulto: sua madre, divorziata da parecchi anni, che come tutte le madri non riesce a capire suo figlio e prende provvedimenti (il collegio) quando viene a scoprire della relazione gay con l’amico Antonin.
Più che ad un complesso edipico alternante, ci troviamo di fronte ad una relazione portata e votata al sovraccarico dove si tende ad abbondare, al punto che gli scambi dialogici risultano tanto impetuosi quanto racchiusi all’interno di opposti: isterici nei momenti di rabbia, amorevoli in quelli materni (“se domani muori, dopo morirò anch’io”), e assistervi è parecchio piacevole, merito soprattutto dei due attori che non lesinano a “cambiare pelle” nel giro di poche battute, e vale la pena riascoltare la telefonata fra la madre e il direttore del collegio per farsi due risate intelligenti.
Xavier Dolan: è nata una stella?