Cronaca di una morte annunciata. Tea Ranno, La sposa vermiglia, Milano, Mondadori, 2012
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di Giuseppe Panella
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Il tono e il lessico di ispirazione e di recupero della lingua siciliana non vogliono ingannare il lettore meno corrivo: non si tratta di un romanzo realistico né regionalistico e neppure di un esperimento linguistico alla Gadda (o, su di un piano assai meno sofisticato, alla Camilleri).
Il terzo romanzo di Tea Ranno (dopo Cenere, Roma, Edizioni E/O, 2006, vincitrice nel 2008 del Premio Chianti) e In una lingua che non so più dire, pubblicato sempre a Roma da E/O nel 2007), è, soprattutto, un romanzo corale, un affresco culturale e sociale, un esperimento linguistico (moderatamente) inteso ad allargare gli spazi di significazione del linguaggio della narrativa italiana e, infine, un progetto di ricostruzione obliquo di vicende viste non più e non soltanto con la lente della storia raccontata ma con l’occhio lungo di un narratore ormai esterno alla vicenda narrata e non più coinvolto in esso, una sorta di osservatore privilegiato dal suo specifico punto di vista.
Il suo modello – per intenderci, anche se non è dichiarato – è sicuramente Cronaca di una morte annunciata di Gabriel García Márquez del 1981, uno splendido romanzo breve in cui gli eventi sono dati già per accaduti al loro narratore e, nello stesso tempo, visti nel loro disporsi e disfarsi sulla scacchiera del destino. Ma, nonostante il suo destino luttuoso e la morte incombente, il romanzo di Tea Ranno è anche una stupefacente storia d’amore, vissuta in modo totale, quasi fosse sospesa, come contratta nelle pause e nelle attese, trasformata in un attimo che vale una vita. Per questo motivo, può essere paragonata anche a L’amore ai tempi del colera del 1985, dove l’amore dura tutta una vita e si consuma solo come suo atto finale, come risultato di un lungo ma proficuo indugiare (anche la protagonista del libro della Ranno aspetta per tutto il lungo romanzo ma la sua attesa viene a coincidere con la fine dell’esistenza e l’apoteosi dell’amore con la morte).
La sposa vermiglia è, inoltre, un romanzo di personaggi singolari e devastati – ed è questo probabilmente il suo pregio principale insieme alla sua peculiare struttura narrativa.
E’ certamente questa una caratteristica fondamentale che accomuna tutte le prove narrative della Ranno. In Cenere, poderoso quando ammaliante affresco storico intessuto di seduzione e di morte, erano le personalità tragiche di Stèfana e di Delinda, carnefici e vittime entrambe in un parossistico delirio di vendetta e di rimorso a dominare la vicenda mentre sullo sfondo quello che spiccava maggiormente era la forza di un destino tragico e incombente. In In una lingua che non so più dire, romanzo della nostalgia e della necessità del ritorno, al personaggio principale di Andrea, il magistrato ormai maturo in cui si accende la pur sempre trepidante fiammella smaniosa e insistente del passato che non vuole saperne di tra-passare definitivamente si contrappone quello di Teresa, l’amore del tempo trascorso che non si è mai potuto realizzare.
Ma in La sposa vermiglia il tempo è già dato per definitivamente obliato e rimosso, congelato in un orizzonte tanto lontano da farsi mitopoietico. In una serie di frequenti passaggi al presente, il Narratore diviene a sua volta il personaggio che interroga (e si interroga) su quanto è avvenuto allora e si pone in posizione di ascolto nei confronti dei testimoni sopravvissuti alla marea montante dell’oblio ormai sopravvenuto (in ciò adottando uno stratagemma narrativo inaugurato da Warren Beatty nel suo primo film, Reds, del 1981 e poi spesso usato in seguito, anche in chiave ironica).
Il racconto e le testimonianze non sono sempre conseguenti (i sopravvissuti sono molto anziani e non ricordano tutto) ma il taglio favoloso del racconto ne risulta avvalorato. Il tono, quindi, della scrittura è molto simile e ricorda quello che ha reso famoso García Márquez e il suo realismo magico ma con la differenza – notevole – che l’ambientazione è resa con assoluta precisione dal punto di vista storico e non c’è vestito o fiocco o tulle o polsino che non sia descritto come effettivamente era stato e lo stesso si può dire dei décor così come dei mobili, delle decorazioni, degli oggetti preziosi e dei bibelot non sempre di gran gusto che spesso appesantiscono e ingombrano gli ambienti in cui sono collocati a fare sfoggio di ricchezza. C’è come l’impressione di un trionfo di “oggetti desueti” (per dirla con il titolo di un celebre saggio critico di Francesco Orlando) che danno il senso di un’epoca così come la lussureggiante descrizione dei cibi destinati a chi poteva permetterseli (e non era certo la maggioranza !) dà a sua volta la sensazione di un tempo felice in cui anche la pasticceria, la selvaggina, il vino e la frutta marcavano una distinzione che oggi si è definitivamente persa. Anche l’atmosfera legata alla compresenza di morti e di viventi (la stessa che aveva pervaso il miglior romanzo di Isabel Allende, La casa degli spiriti, del 1982) è però temperata da una luce di garbato scetticismo fatto di affetto e di nostalgia che la rende assai meno mistica di quello che accade negli ambienti sudamericani cui può essere apparentato.
«Donna Iolanda […] vorrebbe non avere quegli occhi che vedono troppo, quelle orecchie che sentono ciò che gli altri non possono sentire: “Te la ricordi la storia del prete soffocato?” le domanda all’improvviso. Annettina si gira sorpresa: “Sì, ma perché ti viene in mente proprio ora?”. Donna Iolanda sospira: “Così…”, ma lì, a un passo dalla poltrona, c’è la monaca, la sorella del prete ammazzato, con gli occhi bassi e un rosario nelle mani, e subito dietro di lei Mattiuzza Pasqua, dritta, imperiosa, che sta ordinando di alzarsi, di andare dai Licata, di… “Di…” sollecita Iolanda. Annettina spalanca la finestra e loro già non ci sono più»[1].
La storia che attraversa le pagine del romanzo di Tea Ranno è molto semplice e può essere rapidamente riassunta in poche frasi. Vincenzina Sparviero, dopo la morte della sorella Concetta cui era molto affezionata, ha fatto voto di obbedire ai dettami della sua famiglia e accetta, di conseguenza, di sposare chi gli sarà imposto dai genitori che sperano di fare un ricco matrimonio di interesse dandola in moglie a Ottavio Licata, mafioso fascista ricco a milioni grazie a traffici illeciti di vasta portata (pare di cocaina spacciate grazie a collegamenti con le “famiglie” malavitose di oltre Oceano, in particolare con i “bravi ragazzi” che allignano a Las Vegas). Licata è un uomo rozzo e spietato, con un carattere attraversato da venature sadiche (si diverte a uccidere crudelmente animali indifesi durante delle orge che si svolgono in casini di campagna). Inoltre è convinto di potere ottenere tutto ciò che vuole grazie al suo denaro, alla violenza esercitata tramite i suoi sgherri o “uomini di fiducia” (in particolare il perfido “bravo” Albino Verra che si sa per tempo finirà ucciso dalla piccozza di qualche dissidente che ha maltrattato per ordine del Fascio).
Ma, nonostante si disponga a sposarsi diligentemente con quest’uomo che disprezza profondamente, non può fare a meno di notare Filippo Gonzales, il protetto del Principe che possiede gran parte delle terre nell’hinterland del paese, e di innamorarsene. La ragazza, fin ad allora segnata a dito come “chidda malata” per i suoi disturbi psicosomatici (“un cane che le rode le viscere” – così li descrive di solito al medico curante), si accorge di poter essere l’oggetto del desiderio di un giovane di bell’aspetto e di sicuro avvenire. Ma non oserà dimostrare il proprio affetto per lui in attesa che sia lui stesso a farsi avanti in maniera esplicita. Nonostante la cugina Gioconda Lanza la esorti a farlo e la spinga a dichiararsi, la ragazza, pur attendendo la quotidiana visita “da lontano” del giovane che si apposta davanti alla farmacia in corrispondenza con la stanza in cui la giovane donna si rinchiude per cucire e ricamare il proprio corredo, aspetterà fino al giorno delle nozze per manifestare in pubblico la sua propensione amorosa per lui. Questo scatenerà la furia del vecchio Licata che vorrà vendicarsi subito e cercherà di possedere la sua giovane sposa ancora prima del pranzo di nozze. La ragazza resisterà con coraggio e lo sfiderà chiamandolo con un epiteto molto spregiativo, quello che designa lo sciocco siciliano come Giufà[2].
Licata allora le sparerà uccidendola, poi sparerà sulla folla che faceva festa agli sposi in piazza (come era consuetudine – e lo è spesso ancora – nei paesi del Meridione), facendo morire altre due persone e ferendone diverse. Finirà, dopo questo episodio tragico, in manicomio avvalorando la qualifica di Pazzo che gli veniva attribuita già da prima ma alle sue spalle e, una volta diventato vecchio e innocuo, trascorrerà il suo tempo su una panchina a recitare ai bambini che giocavano nei giardinetti delle strofe licenziose (ma pare non le più oscene – secondo la testimonianza di un vecchio conoscente del Pazzo) del poeta catanese Domenico, detto “Micio”, Tempio.
Filippo scomparirà, invece, dissolvendosi in una sequenza tra le più riuscite del romanzo, nell’incendio che quel giorno di luglio era esploso per effetto del caldo e del vento di scirocco e si era esteso tra le piantagioni di proprietà del suo Principe:
«Ed è in quel sole che riverbera bianco sui muri a secco e un poco abbaglia che Filippo Gonzales procede spedito alla volta del Comito. I suoi occhi? Né timidi né malinconici. Un’euforia quieta dentro di lui, che dilaga per le iridi e deborda oltre le ciglia diffondendo per il viso un’incomprensibile felicità. Incomprensibile? Ma no, una felicità piena, perché lì al Comito c’è un fuoco che ancora divampa feroce tra gli ulivi ed è quella la porta di paradiso spalancata verso la terra dove c’è una magnifica Sparviera che lo sta aspettando»[3].
NOTE
[1] T. RANNO; La sposa vermiglia, Milano, Mondadori, 2012, p. 324.
[2] Una deliziosa antologia di storie concernenti le sciocchezze fatte da Giufà si trova in Giufà il furbo, lo sciocco, il saggio, a cura di F. M. Corrao, prefazione di L. Sciascia, Milano, Mondadori, 1991.
[3] T. RANNO; La sposa vermiglia cit. , p. 365.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)