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di Giuseppe Panella
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Sono due i livelli cui Senzio Mazza dispone i temi i toni e le aspettative della sua fatica poetica: da un lato sono la rabbia e l’invettiva (ma soprattutto quest’ultima è sempre misurata e mai eccessivamente strabordante), dall’altro predomina il rimpianto e l’aspirazione a un mondo diverso, più buono, più accogliente, più felice (in una dimensione che assapora il gusto ormai perduto dell’utopia di un tempo). Ma, a ben vedere, i due momenti poetici si incontrano e si incrociano: l’aspirazione a un “mondo nuovo”, senza il male e il dolore di vivere a causa dello sfruttamento e della sete di profitto da parte del Potere che domina le sorti degli uomini conduce ineluttabilmente e direi pacificamente alla polemica e al rifiuto di essi in nome di un futuro che non riproduca pedissequamente e tragicamente il presente turbato e impossibile in cui il poeta si trova a vivere.
Come scrive Marinella Fiume nella sua lunga e appassionata Prefazione al volume:
«Da qui l’intento, anzi il sogno di “fermare il maus prima del clic finale” che, in composizioni come la “Ballata incerta”, fanno presagire la morte di questo nostro povero “cosmo computerizzato”, idolo di una umanità “ammalata”. Pervade la raccolta un senso, insieme cupo e ingenuo, come di chi non si capacita, di straniamento, se non di assoluta estraneità, di coraggiosa solitudine, di disarmante non appartenenza (“e mi sento straniero sulla terra”). E ciò senza mitizzare un passato che talora consola – e non si sa come – con il suo naturale rimpianto, malgrado se ne prendano coscientemente le distanze e se ne scoprano lucidamente le contraddizioni storiche ed esistenziali. Così nella bellissima “Lettera al padre”, il figlio si allontana dalla rassegnazione della cultura contadina e feudale dell’universo isolano per raggiungere l’illusoria città democratica e la fabbrica e scoprire invece che, al di là della storia, la dimensione umana è quella che divide potenti e derelitti, una perenne schiavitù sotto spoglie diverse»[1].
E poi aggiunge, con una nota di forte disincanto e amarezza, rievocando la comune terra di origine e riconducendo il pensiero al ricordo del passato (un momento che, tuttavia, è destinato a non ritornare mai più), che la bellezza di quella dimensione vitale è stata condannata a morte dagli eventi del presente e che di essa non si può che parlare in termini che trascolorano nel cielo umbratile e lontano delle occasioni perdute e non in presenza di ciò che oggi avviene e colpisce per la sua angosciosa impossibilità – il “sogno di una cosa” (di cui aveva parlato già Marx in una lettera giovanile del settembre del 1843 ad Arnold Ruge) è ormai legato soltanto al bisogno di una speranza interiore e irreprimibile che non si può cancellare e che continua a persistere, nonostante le disillusioni, nonostante le delusioni cocenti di ciò che accade:
«E il paradiso da cui l’umanità è stata cacciata prende qua e là le forme della sua Sicilia mitica, anzi del suo microcosmo jonico-etneo, che ubriaca con le sue fragranze di gelsomini d’Arabia, percorso da un fiume, il leggendario Al-Kantàra degli Arabi, sulle cui rive nidificano germani reali, tortore e gazze (“il mio fiume”). […] Che sarà mai, allora, quel languore di nostalgia, quel senso di improvvisa e imprevista felicità, quell’aura di pura luce che il poeta avverte “in tanto buio” (Il mio paese”)? Cosa se non il ricordo che l’anima serba nel suo intimo più profondo di quel paradiso promesso, concesso e subito strappato? Ne nasce un profondo senso di stanchezza, che distende il ritmo del verseggiare, ma rende il lessico più inquietante e astratto; mai, però, il poeta è tanto esausto da abbandonare il sogno, l’utopia di voci tornate umane, la rivendicazione di un nuovo patto di alleanza, una ricreata fratellanza»[2].
La poesia di Mazza, allora, situata com’è su questi due crinali di scelta poetica, oscilla molto, anche linguisticamente, tra due diversi registri di scrittura: è capace di utilizzare e proporsi con espressioni forti e spesso poco raffinate come pure di accendersi di tenerissimi accenti d’amore.
L’oscillazione poetica di Mazza è, di conseguenza, legata all’occasione forte del suo dispiegarsi: l’amore e l’odio, la rabbia degli uomini e il rimpianto del tempo trascorso sono tutte componenti essenziali di questo progetto di poesia che vuole svariare, a tutto campo, tra le gamme più diverse della sua propensione lirica all’accensione immediata rispetto ai sentimenti provati.
«Un fiato lieve. Nel rigirio delle stagioni in fuga / si raggrinza la pelle, / si disforia il volto. / Anche le idee inebetite / vagano alla deriva / dentro le follie collettive. / Negli insani messaggi / scatta il delirio inconcludente / del poeta indegno / a cui rimane intatto / un flauto lieve / per sussurrare dissonanze infime / agli eletti di spirito»[3].
Ma perché queste “dissonanze”, queste espressioni poetiche che si collocano deliberatamente fuori dal coro e che sono l’espressione convinta e risoluta di un continuo quanto radicale dissentire rispetto al mondo e alle sue aberranti scelte contro l’uomo e la sua natura intima più profonda, sono definite “infime” dal poeta?
Proprio per questo motivo, perché vengono dal profondo dell’abisso, da ciò che si colloca in fondo rispetto alla dimensione “superiore” dello spirito e che proviene da quelle sfere dell’umano che apparentemente sono considerate “inferiori”, legate alla materialità della terra e della carne, meno importanti e significative di ciò che attiene all’alto dei cieli del Regno dello Spirito.
Eppure proprio ciò che è infimo (come esaurientemente spiega e promette il messaggio evangelico)
erediterà – ci si augura – il Regno dei Cieli perché in esso si nasconde la natura più autentica degli esseri umani, ciò che li rende degni di essere tali e costituisce la loro sola e vera possibilità di salvezza. La dissonanza rispetto alla realtà del presente ad opera di chi in essa assume una posizione infima e schiacciata dal “tallone di ferro” del Potere è il segno della sua fecondità maggiore rispetto all’armonia superiore di cui si ammanta la scrittura di chi crede di essere superiore agli altri esseri umani. Il “fiato lieve” della poesia è il segno, inoltre, della sua difficoltà a imporre il proprio segno sulle cose della vita, a incidere in qualche modo sulla realtà da cui dissente, la sua minorità rispetto allo svilupparsi imponente e (apparentemente) inarrestabile delle vicende storiche che attraversano il corso impetuoso della vita. La poesia non può cambiare il mondo ma può certamente può far sentire la propria voce, anche flebile, anche debole e impotente, a chi delle vicende del mondo è vittima necessitata e che non può liberarsi da questo ruolo di ostia sacrificale.
La poesia di Mazza cerca un riscatto che sa impossibile ma non si sottrae al suo compito di lotta:
«Per strade impervie. Metto sul banco l’anima. / Da sempre ho barattato l’illusione / con certezze impossibili / come il pane quotidiano / del Padrenostro. / E sono a pagare debiti infiniti / a prezzi di usura / per immaginarmi uomo / libero da facili scomuniche. / E sono rimasto a sacramentare / coi derelitti / fuori dalle regge fastose / con prospettive d’inferno. / Serenamente / rimetto sul banco l’anima»[4].
E’ l’impossibilità del Sacro quella che Mazza mette in scena con il registro infinito delle sue inafferrabili e ineffabili redenzioni dal Male. La sua passione è a fianco dei “derelitti” in nome di una giustizia che non è certo di questo mondo. Ma la sua poesia si conforta e si confronta con l’aspirazione a una vita migliore che, per ora, non c’è ma per la quale sarà possibile un giorno riscattare la propria anima “dal banco” di prova della verità.
Quello che, però, è possibile praticare è il servizio d’amore, il dolce convivere di anima e corpo nella superiore (questa sì che è tale !) ansia del desiderio della congiunzione tra esseri diversi e pur sempre uguali, capaci di assonanze e di contemperamenti assoluti:
«Morbo d’amore. Per Lina. In questa odorosa primavera / c’è un mite tramonto / che attizza nostalgie / di trasognate lontananze. / Non ho come allora / accordi di chitarre / sublimati nelle notti insonni. / Potrei tentare di sedurti / con fasci di fiori / o lusingarti / esaltando i tuoi occhi, / il sorriso dolcissimo, / l’armonia sensuale del corpo, / il profumo sempre verginale / della pelle dorata … Ho soltanto / e mi perdura eterno / inguaribile morbo d’amore»[5].
E’ dunque la passione d’amore l’unica speranza che resta al poeta: il corpo con la sua irresistibile tentazione sempre presente (a qualsiasi età), la condivisione del desiderio, il sogno inafferrabile dell’unione eterna con l’altra persona e la sua possibile continuità di affetti e di bisogni umani.
La nostalgia della giovinezza si rovescia inafferrabile nella rievocazione della bellezza di ciò che è stato. Ciò che è accaduto allora è ancora confitto nel presente e non cambia la posta in gioco della vita perché il “morbo d’amore” non cessa né si dissolve con il tempo.
Essa dura e si continua nella vita come si raccorda la poesia quando quest’ultima non si prostituisce al Potere, ai suoi simboli feroci e ai suoi agenti implacabili e crudeli ma è capace di sentimenti duraturi come l’amore vissuto fino in fondo.
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NOTE
[1] S. MAZZA, Infime dissonanze, prefazione di Marinella Fiume, Valverde (Catania), Casa Editrice Le Farfalle, 2013, pp. 10-11.
[2] S. MAZZA, Infime dissonanze cit. , pp. 12-13.
[3] S. MAZZA, Infime dissonanze cit. , p. 97.
[4] S. MAZZA, Infime dissonanze cit. , p. 29.
[5] S. MAZZA, Infime dissonanze cit. , p. 46.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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