Altre morti. Altre vite spezzate in un angolo di mare nostrum. Giovani uomini, donne coraggiose, dignità scosse da una vita di drammi che diventa ancor più di un dramma, diventa fine. Per tutti noi, per le nostre coscienze anestetizzate dalla superficialità imperante, dall’assuefazione alle tragedie, dai nostri piccoli problemi di libertà, queste morti dovrebbero far riflettere e agire. Un Dittatore arabo e delle Autorità europee e internazionali che dovranno rispondere un giorno, anche loro, di tutte queste morti innocenti, di questi uomini, di queste vite annegate. Ma quanto puo’ interessare a delle figure simili questi cadaveri, che arrivano da lontano, non solo dalla Libia ma anche dal deserto inospitale, dalla Tunisia, dal Marocco, dall’Algeria, dall’Egitto e dalle profondità dell’Africa, quella nera. Sogni che si infrangono in un lembo di mare che è Storia; storia di popoli, di naviganti, di avventurieri e di scopritori. Mare di scambi; scambi di culture, di merci, di idee, di sentimenti. Un mare ridotto ad un’unica grande tomba senza nome, che orna questi corpi gonfi con i suoi splendidi colori. L’azzurro cristallino dei suoi fondali, il rosso dei coralli, il verde cupo di migliaia di alghe che fluttuano nelle sue profonde correnti a volte insidiose. Youssef era un ragazzo di vent’anni. Era bello, forte, con dei grandi occhi che irradiavano gioventù. Attraversò il deserto verso un sogno. Con lui solo una tanica d’acqua e qualche biscotto cucinato dalla madre, avvolti in una pezza non più candida.

Nella mente un unica immagine: i suoi
genitori e le
due sorelline gemelle che lo salutavano, sul bordo della
strada sterrata, ai margini del piccolo villaggio di
terra. Il padre
era orgoglioso di Youssef. Con il suo lavoro e la sua fortuna avrebbe aiutato
la famiglia a vivere con
decoro, senza le solite
tribolazioni e i patimenti di sempre, forse con la
corrente elettrica, per illuminare un pò di più le
loro vite dimenticate anche da Dio. Youssef calcolava mentalmente lo spazio temporale che lo divideva dalla
Sicilia,
quella Sicilia tanto amata dagli arabi, da secoli. Un mese, una settimana, quattro giorni, poi l’imbarco
clandestino. Gli scafisti senza pietà che subito gli chiesero sprezzanti quei
tremila euro guadagnati
sputando sangue, per quindici ore al giorno, da dieci anni, picchiando sul ferro, sempre con il suo sogno al fianco,
irrigato con le gocce del suo sudore salato. Youssef stipato sul barcone a pezzi,
ammasso di carne tra altra carne da macello. Poi la
tonnara fatta di persone. L’aria è
fredda in mare e il
buio fa paura. Chiudendo gli occhi annaspando nell’acqua gelida, pensò al
viso stanco di suo padre.
Vide sua madre, una
Madonna del deserto
piagata di rughe, che con le sue vecchie mani gli
accarezzava i capelli neri come la pece. E
Kadija,
sorriso di perle, che un giorno avrebbe voluto sposare donandogli la
perla più bella, il suo
cuore puro. Vide poi il suo Dio, quel
Dio ingiusto e crudele che si voltava e lo lasciava morire, in quell’
acqua gelida,
in quel buio di paure, morire per una
dignità cercata. I genitori di Youssef mi raccontano del figlio
stringendo con forza nelle loro mani rugose, solcate di vene come fiumi in piena,
un tessuto sfatto,
l’unica cosa che lo ricorda: una
t-shirt consumata,
logora di giorni, di
carezze rabbiose, pregna di
pianti esauriti dai mesi, uno scrigno di
anime violentate dal destino. Una
T-shirt che mi fa
vergognare appena guardo quel piccolo
logo, in alto a sinistra dove sta scritto una semplice frase:
I love Italy.
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