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I maestri del disordine e l’avanguardia americana

Creato il 29 maggio 2012 da Sulromanzo

di Paulina Spiechowicz

 

Jean-Michel Basquiat, Exu

La teoria del caos afferma che l’ordine del cosmo deriva originariamente dal disordine e rinviene nei frattali la struttura generatrice delle forme che appartengono all’universo. Non si tratta, però, di un disordine deregolamentato. Al contrario, la teoria in questione postula un’organizzazione propria al caos, che permette al disordine di produrre strutture fisse, rappresentazioni grafiche del caos originario che si ripetono schematicamente nelle forme dell’universo. I frattali, andando da una base di maggiore a una di minore complessità e viceversa, sono riscontrabili in ogni struttura visibile: il cielo, gli alberi e il volo degli uccelli sono anch’essi a base frattale. Qualche anno fa mi capitò di imbattermi in un articolo su Jackson Pollock e i frattali. Richard Taylor, scienziato americano, si era divertito a studiare la struttura dell’action painting ed era arrivato alla conclusione che l’automatismo di Pollock ricalcava la struttura del caos e l’organizzazione dei frattali (Fractal Analysis Of Pollock's Drip Paintings, Nature, vol. 399, 1999).

Questo articolo è tornato alla mente della persona che scrive qualche settimana fa, in occasione della visita al Museo delle Esposizioni di Roma, dove è in corso la mostra Guggenheim. L’avanguardia americana 1945-1980. L’esposizione mette in scena la nascita dell’avanguardia americana a ridosso del dopo-guerra, dovuta soprattutto all’immigrazione di un importante numero di artisti europei quali Tanguy, Duchamp e Mondrian. Camminando per le ampie stanze del palazzo romano, ascoltando casualmente La sagra di primavera di Stravinsky, quell’articolo letto ormai una decina di anni addietro tornava improvvisamente ad essere di attualità.

Non si trattava, però, solamente di Pollock, e neppure dei frattali. La questione che emergeva nei corridoi del palazzo romano era il disordine intrinseco a tutta l’arte di una generazione, disordine che — sotto l’influenza della musica di Stravinsky — svelava un atteggiamento ritualizzato e sacrificale nell’atto pittorico. Guardando una tela dopo l’altra, il gesto dei diversi pittori esposti — soprattutto per i dipinti che andavano dal 1945 all’inizio degli anni 50 — si disintegrava completamente, in un moto implosivo e impulsivo, che cancellava ogni possibile allusione a una forma soggiacente. Quella dell’avanguardia americana era una volontà di scardinare ogni possibile elemento pittorico, tentativo che ricalcava il disordine culturale nel quale era caduta l’Europa con l’avvento delle due guerre.

D’ispirazione surrealista, l’action painting proponeva un tabula rasa delle forme artistiche che si erano andate sviluppando sin dagli albori della nostra cultura. La pittura diventava espressione di una crisi sacrificale, dove la vittima era impersonata dall’arte figurativa. Ogni forma umana era stata proibita, così come gli oggetti, le loro ombre e ancor più i loro spettri. Era rimasto il gesto significante, il movimento dell’uomo verso e nel disordine, il suo dibattersi nella distruzione dell’ordine culturale proprio di qualsiasi crisi sacrificale (Réné Gerard, La violenza e il sacro).

Per una fortunata congiuntura di circostanze, proprio in questi mesi, il Quai Branly di Parigi ospita una mostra dall’affascinante titolo Les maitres du désordre (I maestri del disordine), mostra che getta nuova luce sulle riflessioni (o piuttosto libere intuizioni, poiché la sottoscritta non è una specialista dell’arte ma una sua semplice fruitrice) sul concetto di disordine fin qui esposto. L’esposizione accosta l’arte primitiva all’arte contemporanea, nel tentativo di far dialogare la lotta tra l’ordine e il caos propria di ogni società. Sin dalle prime opere esposte emerge la necessità intrinseca di ogni comunità di mettere in scena un processo di purificazione, al fine di mantenere l’ordine cosmico. È il caso di Visnu, per esempio, Dio indiano preservatore dell’armonia dell’universo, oppure dell’Uccello-tuono dell’ovest, Wakynias, che ripulisce il mondo delle sue impurità.

Mark Rothko, Sacrifice

Purtroppo, tale processo di purificazione, avendo perso il secolo scorso il valore del sacro e del simbolico, si è svuotato di senso e ha messo in atto una triste carneficina. Di questa violenza è stata testimone l’arte di tutta una generazione, che ha riproposto il moto sacrificale e meramente de-sacralizzato nel momento in cui ha distrutto a sua volta ogni possibile rimando all’umano, lasciando parlare solamente il raptus del gesto, l’automatismo dell’astratto.

L’accostamento tra l’action painting e il sacrificio non è del resto casuale. Il XX secolo ha segnato un ritorno al primitivismo nel pensiero e negli studi filosofici, che hanno visto una maggiore sistemazione scientifica in  discipline quali l’antropologia e l’etnologia. L’idea di rito, di disordine, di sacrificio e di catarsi sono diventati uno strumento non solamente d’indagine nei confronti di popoli lontani, ma anche lo specchio di una società che ha brutalmente riprodotto un olocausto di cui la violenza ricalca solamente i sacrifici che hanno portato alla scomparsa del popolo Maya.

Per concludere, se la risposta della letteratura alla crisi dell’Europa del XX secolo è stata l’esplorazione esistenzialista della vacuità del quotidiano, accompagnata da uno sfrontato realismo d’impronta documentaristica, l’arte ha voltato le spalle al concetto di rappresentazione figurale. Non avrebbe potuto fare altrimenti. Scrivere e leggere la violenza rientrano nell’ordine della testimonianza; mostrarla risulta insopportabile. Non rimaneva altra alternativa espressiva, se non il sacrificio dell’arte figurativa, tramite la messa in scena di un rito di distruzione che ricalcava gli aspetti compulsivi e rapsodici nei quali si era imbattuta la società occidentale.

Consigli di visione: Pina Bausch, The rite of spring

 


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