I manicomi e l’ideologia dei Basaglia

Creato il 21 ottobre 2013 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

Una discussione critica sulla Legge Basaglia

Quest’articolo non vuole rappresentare né un elogio né una critica all’ideologia sottostante al pensiero dei coniugi Basaglia. Piuttosto, si pone il fine di far emergere alcune contraddizioni che gravitano attorno alle interpretazioni delle loro idee e dell’istituzione totale del manicomio.

Il 13 Maggio 1978 fu promulgata la famosa Legge 180, chiamata anche Legge Basaglia. Già il nome della legge cela in sé una prima contraddizione. Il Governo nel ’78 approvò un disegno di legge denominato “accertamenti  sanitari  volontari  e obbligatori”  presentato dal deputato democristiano e psichiatra Bruno Orsini, in qualità di  relatore alla Camera. Arrivati a questo punto è doveroso aprire una breve parentesi storica.

Nel 1978 i radicali avevano raccolto le firme per un referendum abrogativo della legge Giolitti del 1904 che conteneva le disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Era molto probabile che in caso di effettivo ricorso alle urne il quesito referendario sarebbe stato respinto, soprattutto a causa del clima di incertezza e di scarsa sicurezza che attanagliava l’opinione pubblica, in seguito al sequestro Moro. Se tutto questo si fosse avverato, sarebbe diventato impossibile inserire la psichiatria nel nuovo servizio sanitario nazionale che era in fase di approvazione in parlamento. Il rischio allora era tale che, nonostante la situazione di emergenza nazionale determinata dal rapimento Moro,  si  ricorse alla rapida  approvazione  della legge 180. Sei mesi dopo la legge 180 scompariva per essere inclusa nella legge di Riforma sanitaria, legge dello Stato n. 833/78. La psichiatria entrava così di diritto nel servizio sanitario, al pari di ogni altra specialistica medica e di conseguenza il cittadino che soffriva di disagio mentale acquisiva gli stessi diritti di ogni altro cittadino malato.

Tornando a noi, Basaglia non presentò e ideò personalmente il disegno di legge ma fu, insieme a sua moglie, uno tra i principali promotori della riforma psichiatrica in Italia. Per comprendere al meglio l’ideologia diffusa dai Basaglia dobbiamo inserirli all’interno di una cornice intellettuale più vasta, di natura internazionale. Infatti, grazie alla fruizione sia nazionale che internazionale di opere del calibro di Asylumdi di E. Goffman, “Nascita della clinica”,“Sorvegliare e Punire” di M. Foucault e L’istituzione negata di F. Basaglia si sono palesati gli orrori dell’istituzione manicomiale sollecitando, non solo una riforma della disciplina psichiatrica, ma anche un intervento di tipo politico. Ed ecco perché non è strano collegare la denuncia dei manicomi alla critica della psichiatria. Questi testi arricchiscono il livello di informazione di massa sulla realtà dell’internamento manicomiale, dando vita ad un policentrismo di iniziative che si sforzò di contrastare una situazione – unita a quella delle carceri e dell’assistenza sanitaria –, che tutt’oggi è ancora oggetto di discussione e che ha raggiunto i suoi punti di massimo durante le proteste giovanili e studentesche del 68-’69.

In quel periodo i coniugi Basaglia riconoscono la presenza nelle istituzioni totali, in particolare nel manicomio, di ideologie scientifico–religiose con finalità custodialistiche e pedagogiche. Affermando ciò, i Basaglia divulgano in Italia alcune ipotesi, sostenute in precedenza da Focault, che individuavano nel moderno modello medico della psichiatria alcuni elementi che ricollegavano il disagio mentale a un visione seicentesca della follia, legata alla sfera all’etica e alla morale. Difatti, la necessità della punizione risulterebbe, dal punto di vista dei Basaglia, una funzionalità delle istituzioni totali al sistema sociale, di cui sono strumento e mezzo di controllo. Affermano tutto questo perché, secondo loro, la società dell’epoca preferiva definirsi «malata», al posto di riconoscere la componente sociale della malattia mentale; considerandola anche come una contraddizione prodotta dal sistema su cui si fonda. I Basaglia, quindi, non negano l’esistenza della malattia mentale, ma piuttosto fanno emergere la loro negazione del ruolo degli psichiatri, come “tecnici delegati del potere” (F. Basaglia, F. Ongaro, Postfazione in E. Goffman, Asylum, op. cit., p.166) con la funzione di controllare semplicemente gli internati.

Ma possiamo definire i Basaglia come i portavoce in Italia del movimento antipsichiatrico, in seguito all’importazione delle esperienze psichiatriche a carattere comunitario e psicanalitico fiorite intorno agli anni quaranta in Inghilterra e in Francia?

Per rispondere a questa domanda bisogna citare alcune letture critiche e storiche sul fenomeno italiano, prodotte anche dai collaboratori dei Basaglia. Ad esempio, in L’utopia della realtà. Franco Basaglia e l’impresa della sua vita Maria Grazia Giannichedda riconosce uno scarto tra la figura intellettuale/politica di Basaglia e il movimento sociale che dava sostanza alle sue idee. Secondo la Giannichedda il movimento ha interiorizzato solo in parte la visione di Basaglia, che risulterebbe così un leader solitario o, meglio, un leader dal pensiero eccessivamente semplificato. Questo è stato il prezzo da pagare, per poter adattare nel modo migliore le loro idee alla protesta veicolata anche tramite i mass media.

Dal punto di vista degli storici e sociologi l’impresa dei Basaglia appare invece come un fenomeno rilevante, ma non così lineare. Il sociologo statunitense Micheal Donnelly in The Politics of Mental Health in Italy non usa mai il termine antipsichiatria per denominare l’esperienza italiana. Bensì ritiene che nel nostro paese si sia svolto un processo di politicizzazione interno alla stessa psichiatria, destinato successivamente a inglobare altre componenti sociali. Una seconda peculiarità individuata dal sociologo nel caso italiano è rappresentata dal grave ritardo che caratterizzava la legislazione sanitaria sull’assistenza e la cura psichiatrica che assimilava le malattie mentali ai comportamenti criminali (basti pensare al codice Rocco e alla legge Giolitti del 1904).

Sulla stessa linea interpretativa si muove Patrizia Guarnieri ne La storia della psichiatria. Un secolo di studi in Italia. La studiosa sostiene che l’elaborazione culturale dell’esperienza italiana si è sviluppata in gran parte fuori dal contesto medico e universitario. I soggetti che sono stati “investiti” a pieno da questa tendenza sono stati la cultura del mondo studentesco, dell’universo sindacale e delle scienze umane. Infatti, l’editoria che ha prodotto i migliori materiali documentari sul fenomeno non è stata quella specializzata in testi medici, ma quella umanistica. Detto questo, il movimento italiano non si può considerare un esempio di antipsichiatria, intesa nei termini di una negazione della realtà della malattia mentale. Esso fu piuttosto un’impresa fortemente politicizzata, che vedeva la salute mentale come organicamente correlata alle avversità sociali del periodo in questione.

Agli occhi della lettura storiografica i Basaglia, dopo l’esperienza di Gorizia descritta in L’istituzione Negata, si sono lasciati trasportare da un movimento politico fortemente connotato ideologicamente e intellettualmente. In questo modo si riuscì a ottenere la chiusura dei manicomi, un esito che molto probabilmente non rappresentò il risultato che i Basaglia volevano raggiungere. Ne L’istituzione negata i due psichiatri non hanno mai proposto esplicitamente la chiusura delle strutture manicomiali. Anzi, sostenevano che il manicomio dovesse essere aperto in senso metaforico e letterale. In primis, per restituire ai pazienti la loro soggettività, e poi per influenzare la pratica professionale della psichiatria nella direzione da loro auspicata. Purtroppo, la maggior parte dei medici e degli operatori del settore è rimasta ostile alla politicizzazione, e in parte anche alla socializzazione, della pratica psichiatrica anche se si sono dimostrati disposti a interrompere i loro legami ambigui con la questione dell’ordine pubblico.

Negando l’istituzione del manicomio come spazio e come luogo di violenza si è andati incontro a un effetto perverso, che si è manifestato nelle valutazioni fatte a posteriori dagli stessi collaboratori di Basaglia. Ad esempio, Giovanni Jervis ritiene che le battaglie contro le istituzioni della violenza non siano né obsolete né scomparse con l’approvazione della legge 180. Anzi, queste istituzioni rimangono immutate nella loro sostanza e alcune volte rafforzano la loro influenza e potere istituzionale, espandendo le loro finalità. Anche se marginalmente possono rendersi più umane e aperte, nell’insieme rimangono ancora “ghetti di miseria, oppressione e squallore, o semplicemente razionalizzano il loro potere sociale” (G. Jervis Prefazione in T. Scheff, Per infermità mentale. Una teoria sociale della follia, op. cit., p. 8). La prova della continuità tra il manicomio e le moderne strutture territoriali sta proprio nella nascita di strutture per le visite di controllo, per la diagnosi precoce, per l’igiene mentaletermine insensato se mai ve ne fu uno” (Ibidem). Un altro aspetto di questa continuità è rappresentato dai medici generici e dagli ospedali civili che gestiscono, in stretto rapporto con le strutture specificatamente psichiatriche, un numero crescente di persone, facendo crescere il numero dei ricoveri volontari, brevi ma ripetuti. A questo punto, Jervis riporta l’esempio del crescente numero di ricoveri degli operai per «esaurimento nervoso» negli ospedali psichiatrici, come sintomo di una preferenza del padronato per il riciclaggio psicologico degli operai, rispetto a una riflessione sull’organizzazione del lavoro.

Inoltre, ritorna così la confusione tra la gestione dei diversi tipi di malati di mente dentro e fuori le mura ospedaliere, dei pazienti somatici dentro e fuori l’ospedale civile, dell’assistito cronico, del disadattato, del recluso e così via. In questi casi è necessario identificare, con maggiore precisione che in passato, il significato dell’etichetta psichiatrica applicata al singolo «caso» e quali caratteristiche differenziano i diversi trattamenti (dentro e fuori l’ospedale) per i pazienti psichiatrici e non-psichiatrici affidati alla repressione della polizia o alle cure dell’assistenza pubblica.

Nel 2009 il deputato del PDL Carlo Ciccioli ha presentato una proposta di legge per integrare la legge 180. In sostanza si tratterebbe di ridefinire il Trattamento Sanitario Obbligatorio, in Trattamento Sanitario Necessario (TSN). Si riaprono così le vecchie discussioni ideologiche legate al rapporto tra significante e significato. Nella proposta di legge si suggeriscono tempi di ricovero più lunghi, prorogabili dal medico fino ad un anno. Così si correrebbe il rischio di ricadere nel vecchio approccio custodialistico del paziente, deresponsabilizzando il medico curante. Inoltre, si ripresenterebbe la questione di utilizzare residenze idonee, ignorando l’esistenza di quelle già presenti sul territorio (sia pubbliche che private) e il miglioramento dei servizi offerti a livello regionale.

Ancora è tutto bloccato, la proposta di legge è in corso di esame in commissione. La situazione post-180 sembra far riacquistare al fenomeno del disagio mentale la sua passata invisibilità e ambiguità.


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