Magazine Diario personale

I miei bambini vengono con noi

Da Maddalena_pr

È UNA BUONA SENSAZIONE PARTIRE SENZA UN ADDIO. SENZA UN BUCO NELL’ANIMA, UN’ASSENZA.

I miei bambini vengono con noiSarah si è addormentata quasi subito. Non era stanca. L’auto la riporta alla piccola di cinque anni fa, quando dormiva per un nonnulla. Crescere non ci cambia, restiamo quello che eravamo. Ci affanniamo tanto, e poi un’automobile trema sotto il culo e siamo di nuovo piccoli esseri umani in braccio alla corrente.
Si è sistemata il grande cane di peluche sotto la testa, ogni tanto un sibilo s’infila tra le note del solo cd da bambini che ho recuperato nel cruscotto.

Patrick è sveglio, seduto al centro, gli occhi infossati: potrebbe riposare e invece resiste, cerca i castelli mentre percorriamo la val d’Aosta al contrario, mentre torniamo a Milano. Sta zitto, la sua voce sale nell’abitacolo solo per leggere qualche cartello, puntare quei vecchi edifici merlati, le luci che contornano qualche chiesetta sui promontori. Interrompe insoliti discorsi sulla letteratura in cui siamo immersi suo padre e io.

Isabelle si annoia, le passo pezzi di cibo per tenerla occupata. Non è granché questo spettacolo spento dal buio oltre il finestrino. Non si vedono fiumi, campi e vacche. La neve è già sparita, scendendo di quota. La bambola non vale a distrarla.

Mentre oltre il vetro scorre la fiaccolata delle auto, mi prende un pensiero: “I miei bambini vengono con noi!” Banale, assurdo.

Forse memoria emotiva di tutti quei viaggi in cui tornavo da sola. Di quelle volte che lasciare un posto era lasciare qualcuno.

Mia sorella, le sue bambine. Le salutavo alla stazione del pullman, salivo, pagavo con le corone norvegesi, mi trovavo un posto. C’era quello scarto violento tra loro e me, quei giorni e un aeroporto: non sono mai stata brava nelle separazioni. Dovevo ripetermi: “Si ferma, ma non torna indietro.” Quello che avevamo condiviso, messo in salvo nella cassaforte del cuore, restava. Tornare non significa perdere.

Mathias, Beauvais: mi accompagnava fin dove poteva. Consumavamo qualcosa in un bar dell’aeroporto, e tutto era come un caffè: restava sempre un fondo amaro, mi era terribilmente difficile restare in bilico sul momento.
Qualcuno fugge, dice che è inutile diluire gli addii. Forse avrei dovuto farlo anch’io: prendere un taxi, salutarlo veloce con la mano, da giù in strada, ed essere sola tutta in una volta, in un unico gesto rapido. Col tempo non ho imparato a vivere i congedi: non ho imparato ad abitare le ore per quello che sono, che finché la persona che ami è al tuo fianco non sei sola. Che non sei partita, finché non sei partita. Che puoi vivere e basta, il tempo che resta. E confinare il saluto, comunque, a un fiato veloce, negli ultimi minuti.

È una buona sensazione, scoprire con un’ingenuità così sciocca, che i miei bambini tornano con me. Anche se la vacanza è finita, è finito quel tempo, quel luogo, quel noi.
Come le prime volte che si viaggiava, Mathias e io, e lui viveva con me. Tornammo dalla Sardegna insieme, e viaggiare non significava più trovare un punto d’incontro. Quello che più di tutto ami, se ne vien via con te. Partire senza un addio. Senza un buco nell’anima, un’assenza.

Non mi vergogno, per un pensiero così stupido: quasi sempre, l’amore, è meraviglia di un fatto ordinario.


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