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i ‘miei soldi’

Creato il 20 maggio 2012 da Gaia
Di recente su questo blog c’è stato un dibattito su cosa sia giusto avere lavorando e cosa si debba dare a chi non lavora. Una delle idee a mio avviso più diffiuse e alle quali io mi oppongo più strenuamente è che se uno guadagna dei soldi, fossero pure tantissimi, non c’è nulla di scandaloso se li considera suoi e se li vuole tenere. Ha lavorato, è stato bravo, gli spettano. Secondo me invece non esiste una chiara correlazione tra merito e ricchezza. Ci sono troppi altri fattori in gioco.
Innanzitutto, uno non guadagna cose, guadagna denaro. E il denaro è una convenzione. In natura non esiste: la sua esistenza e il suo valore sono invenzioni rinegoziabili. Tu dici: io guadagno duemila euro al mese. Cosa vuol dire? Chi ha stabilito il valore di quegli euro, chi ha fatto sì che corrispondessero a tot oggetti, o dollari, o yuan? Chi fa sì che con quei duemila euro tu possa comprare quattro smartphone, perchè chi li ha fatti prende molto meno di te, per vari motivi tra cui che la sua moneta è debole? Non tu di certo. Non ne hai merito.
Non solo il valore del denaro, ma anche la quantità assegnata a ciascun tipo di lavoro non dipendono dal lavoratore (in questo caso, il lavoratore può essere un manager come un musicista milionario. Ormai la parola lavoratore fa subito pensare a un poveraccio). Costui può negoziare entro certi limiti, è vero, ma sarà sempre lo stipendio di un dirigente diverse centinaia di volte quello di un operaio, e non viceversa, un calciatore a essere più pagato di un contadino, e non viceversa… dipende dai rapporti di forza all’interno di una società. Se io voglio fare il professore, trovo un posto manageriale, o sono assunto al comune, so che il mio stipendio oscillerà tra un massimo e un minimo non distanti tra loro e socialmente definiti, per quanto io sia bravo e mi impegni. Non ho merito neanche di questo.
C’è poi un altro aspetto molto importante. Tu sei ricco perchè lavori e guadagni bene, hai avuto una buona idea, un talento vendibile, e così via. Ma tu hai potuto guadagnare bene, vendere il tuo talento, far fruttare la tua idea, perchè la società ti ha messo in condizione di farlo. La lista dei modi in cui questo è successo è così lunga da non poter mai essere completa: vivi in un paese in pace, l’economia funziona, le diseguaglianze non sono eccessive e quindi destabilizzanti, la criminalità è sotto controllo, il sistema legale ti tutela, le infrastrutture ti permettono di spostarti, di produrre e di commerciare, le scuole ti hanno formato, il volontariato altrui o l’intervento statale si è preso cura di problemi che quindi non sono ricaduti sulle tue spalle, l’aria è pulita, l’ambiente non completamente distrutto, il cibo che mangi controllato, la sanità a disposizione, puoi esprimerti liberamente e votare, anche candidarti, eccetera eccetera eccetera.
Tutte queste cose non dipendono da te, se non in minima parte. Contribuisci con le tue tasse, se sei onesto e le paghi, ma non riuscirai mai a ricambiare tutto quello che, nel presente e nei secoli, gli altri hanno fatto anche per te. E anche se la società ti avesse messo i bastoni tra le ruote, anche se non sempre tutto funziona bene, se sei vivo e sei ricco saranno sempre di più le cose positive di cui hai usufruito, perchè un uomo o una donna se ha tutto contro per quanto abile soccombe – oppure si arricchisce in modi violenti e disonesti, come spesso accade in paesi molto instabili – e questo non è un merito. Solo in tempo di pace e in una società ed economia relativamente stabili e funzionanti, in linea di massina, un onesto lavoratore prospera. Quindi non essere arrogante e non pensare di esserti fatto da solo.
Oltre a non poter determinare che valore ha il suo reddito, né, salvo rari casi, entro quali limiti il suo reddito può essere negoziato, oltre ad essere in debito con la società per gran parte di quello che è, il lavoratore/imprenditore è dipendente da tutta un’altra serie di variabili di cui non ha merito o demerito. Le raggrupperò sotto il nome di ‘fortuna’.
Nascere belli, forti o sani, è una fortuna. Certo, la determinazione vuol dire, ma senza certe misure la modella non la puoi fare, senza un certo orecchio musicista non puoi essere, e così via. Non è un merito nascere in una famiglia ricca, stimolante, amorevole – oppure avere un sacco di problemi fin da piccolo e fortificarsi, c’è chi considererebbe questo preferibile. Infine, c’è la sfortuna contingente: una brutta annata, circostanze sfavorevoli, una malattia improvvisa o un grosso lutto a un punto determinante della carriera… c’è chi si risolleva, è vero, ma c’è chi non può farlo.
Naturalmente, non è possibile riparare a tutte le ingiustizie del destino. La nostra però è una società che cerca di prendersi carico della sfortuna: agevola i disabili, risarcisce gli agricoltori per le perdite legate al cattivo tempo, paga le malattie ai lavoratori, manda fondi ai terremotati o almeno ci si aspetta che lo faccia, e così via. Perché redistribuire la sfortuna va bene, e la fortuna no? In fondo, sono due facce della stessa medaglia.
Sicuramente, a netto di tutto quanto elencato sopra, esiste anche il merito individuale. Ma influisce in maniera davvero marginale. Io sono d’accordo con l’esistenza di un po’ di disuguaglianze, perché effettivamente c’è chi si impegna di più e chi di meno. Inoltre, non tutti hanno gli stessi desideri materiali. Se qualcuno vuole lavorare meno, guadagnare meno e godersi la vita, io non ho obiezioni – idem nel caso contrario, se uno vuole farsi qualche ora di lavoro in più per pagarsi ad esempio una vacanza. Però le differenze dovrebbero essere solo queste: diverso impegno porta a diverso guadagno, quindi entro limiti molto ristretti, per cui un’ora di lavoro vale grosso modo lo stesso per tutti.

Mettere in pratica quest’utopia non è facile: penso sia più semplice redistribuire le ricchezze una volta guadagnate che intervenire sull’accumulazione di per sé: per esempio, a quante ore di lavoro ammonta un libro? Non sapendolo, meglio tassare uno di più quanto più guadagna, piuttosto che cercare di misurare le ore immesse in un certo prodotto. Una tassazione molto pesante per guadagni molto alti lascerebbe comunque quel minimo in più a chi guadagna in più, ma al tempo stesso non consentirebbe le diseguaglianze eccessive derivanti dai fattori che elenco sopra, slegati dal merito.
Il campo creativo in realtà è particolarmente difficile: un libro brutto non merita gli stessi soldi di un libro bello (eppure, guarda caso, quanto spesso rende di più?). E il rischio di chi avvia un’attività, va ricompensato? E come? Le questioni del rischio imprenditoriale e del talento e successo sono più complesse di quelle delle ore di lavoro. Ne parlerò, non in questo post che è già troppo lungo.


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