Ovvero, dell’uso di fatti scientificamente dimostrati come base per sostenere azioni socialmente inappropriate.
Premessa: da quando la scienza esiste, il suo carisma è stato utilizzato selvaggiamente per far passare come verità scientifiche alcune misure sociali mostruose. Gli esempi più classici e attuali sono l’eugenetica e il razzismo, ma ce ne sono altri: anche il marxismo e la psicanalisi furono fatti passare per scienza, e il carisma scientifico delle suddette teorie è stato usato come un martello per colpire tutti coloro che non concordavano.
Sulla base di questo dato di fatto, e cioè che la scienza fu usata come “maschera” per far passare in realtà specifici progetti politici, alcuni hanno sviluppato interi filoni critici del pensiero scientifico; penso ad esempio agli eredi di Adorno e Horkheimer. E tuttavia, generalmente, la scienza ha acquisito ormai una tale autorità che la sua delegittimazione non è quasi mai aperta. Di solito chi critica le posizioni della scienza cosparge i propri discorsi di distinguo atti a sostenere che tutto sommato la scienza, anche se lui la critica, è dalla sua parte; che lui critica lo “scientismo” (?).
La verità però è che una critica seria agli usi erronei della scienza per far passare opinioni politiche la vediamo raramente. Certo, oggi sappiamo che molte di quelle “verità scientifiche” in realtà non erano verità scientifiche affatto. Il punto, però, è che troppo spesso ciò viene utilizzato come una critica alla scienza tou court: la scienza si è sbagliata allora, la scienza si sbaglia adesso.
Vero è che la scienza è stata usata male. Ma si sbagliava davvero? È tutta sua la colpa? In realtà, io non credo proprio che il problema principale sia la non-scientificità di ciò che si diceva allora, quanto l’uso illegittimo di ciò che la scienza effettivamente diceva.
Prendiamo ad esempio il razzismo. Oggi si dice molto pacificamente che il razzismo era una pseudoscienza, che le razze in realtà sono tutte uguali scientificamente.
Ciò non è affatto vero, statisticamente parlando.
Gli studi che dimostravano un minore volume cranico medio fra i neri erano sostanzialmente esatti. A tutt’oggi, i neri hanno test del QI in media più bassi degli europei. I nativi americani hanno in media una tendenza molto maggiore a diventare vittime di dipendenze patologiche, come quelle da alcol e gioco d’azzardo. La suscettibilità a diverse malattie in media dipende strettamente dal background genetico, e anche vari tratti psicologici hanno in media una base genetica dimostrabile. La “razza” non ha limiti perfettamente definiti, ma come approssimazione statistica ha un ottimo valore; e allo stesso modo ce l’hanno anche altre categorizzazioni che oggi dal punto di vista sociale vengono (giustamente) demolite, come il sesso, la religione, l’etnia.
Quelli che ho citato sono tutti dati di fatto scientifici, ma possiamo tirar fuori anche altri dati di fatto, piuttosto evidenti anche senza pubblicazioni in peer review, che sono palesemente “razzisti”, o quanto meno politicamente scorretti: i calabresi sono in media più mafiosi dei valdostani, i gay sono in media più affetti da HIV, i musulmani sono in media più sessisti ed omofobi dei cristiani (o almeno dei cristiani europei), gli italiani mangiano in media più pasta dei tedeschi (e scommetto che sono anche più ritardatari dei tedeschi)…
Tutto vero, tutti dati di fatto.
Dunque il ragionamento che si fa è: “la scienza dice che dovremmo essere razzisti, quindi diciamo di no alla scienza e sì a Valsoia”, oppure, viceversa, “la scienza dice che dovremmo essere razzisti quindi diventiamo razzisti”. Spesso troviamo anche un terzo approccio, consistente nel cercare di mettere tutti d’accordo negando il dato di fatto scientifico. Dunque cerchiamo di mettere in discussione il fatto che i neri abbiano in media un QI più basso, perché se dimostriamo che ce l’hanno lungo come il nostro abbiamo salvato capra e cavoli.
In realtà il punto non è affatto quello, perché non c’è nessun dubbio scientificamente parlando che i neri abbiano, ribadisco, in media, un QI più basso dei bianchi. Il punto è che il razzismo non è tanto un’affermazione di un dato di fatto, quanto una serie di comportamenti e di misure sociali. Essere razzisti non significa credere che i neri in media abbiano un QI più basso; essere razzisti semmai significa pensare che il fatto che i neri abbiano in media un QI più basso sia base legittima per discriminarli nei vari ambiti sociali e politici.
“Sì, ma è la stessa cosa, Alberto!”, mi direte; “se sono meno intelligenti è ovvio che sia giusto discriminarli!”
Sì, è vero, se fossero meno intelligenti sarebbe sensato discriminarli. Ma io non ho mai detto che i neri siano meno intelligenti dei bianchi. Io ho detto che in media hanno un QI più basso.
Tanto per cominciare il QI non è esattamente “intelligenza”, ma non è questo il punto importante. Il punto importante è nel dato statistico: supponiamo che la media del QI fra i neri sia due o tre punti più bassa che fra i bianchi, o anche, perché no, dieci punti più bassa che fra i bianchi. Ragionando un po’ a spanne questo significherebbe che, se prendo un nero e un bianco a caso, la probabilità che il bianco sia più intelligente del nero non sono esattamente 50%, ma magari 55%, o al limite 60%. C’è comunque una probabilità enorme, del 40% almeno, che quello specifico nero che abbiamo davanti sia più intelligente. Quindi se ad esempio stiamo assumendo per un posto di ricercatore, non ha senso prendere il bianco e scartare a priori il nero (ovvero essere razzisti): ci tocca comunque guardare il CV di entrambi e fare il colloquio a entrambi per vedere chi è meglio, o rischiamo seriamente di farci sfuggire un ottimo candidato e di assumere invece un tardone solo perché è bianco.
Il problema qui è statistico: anche se la media è diversa, non significa che non ci siano sovrapposizioni nella distribuzione, e quindi, nel nostro esempio, che ci siano certi neri più intelligenti di certi altri bianchi. Insomma, non possiamo passare da “i neri sono in media meno intelligenti dei bianchi” a “i neri sono meno intelligenti dei bianchi”, ovvero a “mi aspetto che qualsiasi nero sia in quanto nero meno intelligente di qualsiasi bianco”.
Generalizzando: non tutte le differenze statisticamente significative sono praticamente significative, ovverosia non tutte giustificano un differente trattamento delle due situazioni.
Un esempio che faccio spesso riguarda la maggiore incidenza di HIV fra gli omosessuali e il divieto, esistente presso alcuni ospedali, alle donazioni di sangue da parte loro.
È un dato di fatto indubitabile che gli omosessuali siano in media più affetti da HIV rispetto agli eterosessuali. E non solo, è una differenza enorme dal punto di vista statistico.
Tuttavia:
- Il sangue donato viene comunque sottoposto al test per l’HIV, quindi se è affetto lo scopri comunque.
- Il medico non ha alcun modo per sapere se il paziente è omosessuale, eccetto le sue dichiarazioni; dunque il paziente omosessuale potrebbe comunque dire di essere eterosessuale e donare il sangue lo stesso.
- La più importante: la ragione per cui gli omosessuali sono più a rischio HIV sono alcune pratiche sessuali diffuse nella popolazione omosessuale, principalmente il sesso anale ricettivo. Ma se un omosessuale non pratica il sesso anale e non ha un gran numero di partner sessuali non è più a rischio di un eterosessuale. Nel questionario che si fa fare prima della donazione si può indagare, invece che sull’orientamento sessuale, sulle pratiche sessuali; quindi se proprio vogliamo essere super prudenti possiamo scartare a priori tutti coloro che praticano il sesso anale ricettivo, ma non tutti gli omosessuali, perché non avrebbe senso scartare per esempio un omosessuale vergine.
È particolarmente evidente in questo caso che, nonostante un enorme differenza statistica in un aspetto molto rilevante per il tema di cui stiamo parlando, ovvero la suscettibilità a HIV, una differenza di trattamento fra le due popolazioni non è giustificata al livello pratico; tanto da un lato dobbiamo comunque fare il test HIV a tutti, e dall’altro possiamo indagare precisamente sulla cause specifiche della maggiore incidenza di HIV fra gli omosessuali, quindi a quel punto il dato statistico rappresenta una perdita di informazioni, non un guadagno. Se dovessimo andare completamente a caso e scegliere i donatori soltanto basandoci sull’orientamento sessuale, anche io scarterei gli omosessuali. Ma non è così, disponiamo di altre informazioni che rendono l’orientamento sessuale del paziente del tutto irrilevante.
In un precedente articolo feci un altro esempio dell’applicazione di questo ragionamento fallace, ovvero nel caso di adozione a coppie gay. Ormai non si contano gli studi che non hanno individuato alcuna differenza fra bambini cresciuti da coppie gay ed etero; ciò non toglie che lo studio perfetto non esista, quindi potenzialmente una differenza potrebbe essere sfuggita alle analisi finora.
Possibile. Ma se è sfuggita a molteplici, ripetute analisi scientifiche, vuol dire che si tratta di una differenza piccolissima. Una differenza statisticamente così piccola può essere dovuta a molti fattori, e la maggior parte di questi possono verificati individualmente: ad esempio può essere che nella comunità gay le coppie infedeli o problematiche siano più numerose (ammesso, ma non concesso), ma in ogni caso le coppie che si candidano alle adozioni vengono prese in esame individualmente da psicologi e assistenti sociali, quindi se esistono dei problemi lo rileveremo immediatamente in ogni singolo caso; sarebbe inutile, anzi, dannoso, scartare tutte le coppie gay. Sarebbe più o meno come dire che non dobbiamo permettere l’adozione a coppie di napoletani perché potrebbero essere camorristi.
Questa fallacia la vediamo continuamente e il suo uso è estremamente preoccupante.
Uomini e donne in media sono diversi quindi uomini e donne vanno trattati diversamente
Musulmani e cristiani in media sono diversi quindi Musulmani e cristiani vanno trattati diversamente
Italiani e tedeschi in media sono diversi quindi Italiani e tedeschi vanno trattati diversamente
E via discorrendo. Il punto, ripetiamolo una volta di più, è che non sempre una differenza statistica giustifica una differenza di trattamento, o quella specifica differenza di trattamento che si vorrebbe imporre.
Il movimento sessista e omofobico che dice di essere “contro il gender”, come tutti i movimenti razzisti, fa un uso spietato di questa fallacia. Argomenta, ad esempio, che poiché donne e uomini sono statisticamente diversi (che è vero; non sappiamo in che misura si tratti di un effetto biologico e in che misura sia sociale, ma è vero), allora dobbiamo spingere le donne a fare le infermiere e le insegnanti delle elementari e i maschi a fare gli operai e i soldati. Questo passaggio è sottile, ma è lo snodo centrale della discussione. Non è necessario sostenere che uomini e donne siano statisticamente identici in tutto e per tutto per sostenere che vadano trattati allo stesso modo: è sufficiente dimostrare che esiste una percentuale di donne in grado di diventare ingegneri o operai perché la ragione di discriminazione sul lavoro secondo la quale le donne non dovrebbero essere ingegneri cada. Analogamente, che vi siano in media differenze comportamentali e psicologiche fra popolazione omosessuale ed eterosessuale, quali che esse siano, non giustifica la discriminazione a priori dell’omosessuale in quanto omosessuale.
In conclusione, ciò che qui si vuole sottolineare è l’importanza di usare tutti i dovuti distinguo quando si citano dati statistici. Espressioni incaute come “quelli appartenenti alla categoria X sono diversi da quelli appartenenti alla categoria Y” sono pericolose, nonostante siano utilizzate costantemente nei media. Di sicuro questo modo di esporre i dati è di grande effetto. Ma dà impressioni sbagliate e può facilmente essere utilizzato per giustificare discriminazioni e violenza.
Ossequi.