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I pachidermi, i festival letterari e l’assessore in vetrina

Creato il 17 settembre 2012 da Autodafe

di Cristiano Abbadessa

Dopo alcune anticipazioni dei siti ben informati e ben imbeccati, anche il Comune di Milano ha ufficializzato nelle sue pagine web la nscita di Book City, festival letterario diffuso che animerà la metropoli a fine novembre. L’assessore Stefano Boeri annuncia con orgoglio il lieto evento, che vede la luce avendo per genitori i soliti colossi del mondo editoriale milanese: il Corriere della Sera, i Feltrinelli, i Mondadori, i Mauri.

I pachidermi, i festival letterari e l’assessore in vetrina
Il rilancio della notizia batte sul tasto “finalmente anche Milano avrà un evento letterario di prima grandezza”, ignorando ovviamente che Milano ha già avuto a giugno il suo festival letterario, del quale siamo stati tra gli animatori, nato dal basso e vissuto sulla passione e l’intelligenza di chi lo ha organizzato e di chi vi ha preso parte attiva. Si sapeva, quando abbiamo lanciato e fatto partire il “nostro” festival, che i colossi avevano in gestazione qualcosa di vagamente simile. Lenti come tutti i pachidermi, ci hanno messo molto più tempo a partorire l’idea, forse perché avevano bisogno di scopiazzare, negli slogan e nelle parole d’ordine, l’esperienza dei piccoli. Provate a leggervi quanto dicono Boeri e Mauri sul festival diffuso, gli eventi fuori salone, le periferie, il coinvolgimento della cittadinanza, e confrontatelo con il progetto del “nostro” festival, tanto per rendervi conto quanto idee e messaggi vengano ricopiati senza nessuna vergogna. D’altra parte, i pachidermi sono lenti, ma quando arrivano scaricano la loro mole fino a schiacciare l’esistente, senza più lasciarne traccia.
Non serve dire che i piccoli editori e le realtà più vive della cultura e dell’editoria milanese non sono state consultate, né verranno invitate, a partecipare a questa kermesse vietata ai minori. Il festival di giugno aveva aperto le porte a tutti, trovando i grandi nomi disinteressati a una proposta paritaria, in cui i riflettori non erano a priori puntati sul già noto e già grande, ma gli spazi e la credibilità andavano conquistati sul campo. A scanso di rischi, la grande editoria, come ovvio, non ricambia l’invito e prepara le passerelle su cui sfilare.
Personalmente non mi rammarico della presa di distanza, che servirà forse a chiarire meglio le idee a quanti ancora credono che la grande e la piccola editoria facciano parte dello stesso mondo e non siano, come invece sono, due universi paralleli non comunicanti. Vorrà dire che d’ora in poi Milano avrà un festival della letteratura (a giugno) con molta partecipazione e uno show letterario (a novembre) con molti spettatori: e non serve sottolineare quale sia, nel bene e nel male, la differenza tra partecipanti e spettatori. Semmai, avremo modo di ragionare con calma su quel che ciò dovrebbe significare per il vivace e sgomitante mondo culturale locale non di prima fila.
Quello che però infastidisce, al di là del legittimo interesse dei grandi a giocare tra loro, sono le scelte del Comune e dell’assessore Stefano Boeri. Dopo essersi riempiti la bocca di slogan sul “partire dal basso”, perseguono le sempiterne scelte di camerieri dei potenti. E se il festival di giugno ha avuto un patrocinio che non è andato oltre il mero timbro e una annoiata partecipazione di Boeri alla conferenza stampa di presentazione, qui l’assessore è il primo a battere la grancassa e a pubblicizzare l’evento, mettendosi in vetrina per avere visibilità (ma rischia di essere la visibilità di un manichino, che fa vendere l’abito ma non se stesso). Non parliamo poi dei contributi pubblici, che il festival diffuso dei piccoli non ha avuto (zero euro, diretti e indiretti) e che invece le grandi rassegne mungono senza vergogna: perché è evidente che, secondo i nostri amministratori, ad aver bisogno di un pubblico aiuto sono i ricchi e non i poveri, la Milanesiana o Book City e non il “nostro” festival.
Forse, come minimo, sarebbe il caso di domandarsi se questo ha senso per una giunta “di sinistra”. A meno che, come temo, sul fatto di essere “da sempre di sinistra” non prevalga inevitabilmente il fatto di essere nati ricchi. E che quella, ancor più “da sempre”, resti l’unica vera appartenenza.


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