I paradossi del "reality"
Creato il 21 maggio 2013 da Giuseppeg
Il desiderio impellente delle telecamere di infiltrarsi nella
vita di ogni giorno, di esaurirla e sviscerarla in tutte le sue implicazioni
appartiene di fatto a questa nostra generazione, ma è in realtà una conseguenza
naturale dopo la nascita della televisione. La telecamera è un occhio, e in quanto tale ha gli stessi
vantaggi e svantaggi del nostro organo visivo: innanzitutto la capacità di vedere, ovviamente, di sezionare una
parte della realtà reinterpretandola secondo i suoi parametri di partenza, cioè
secondo la sua struttura. E proprio
qui troviamo il primo vero limite, ovvero l’impossibilità
di far coincidere l’immagine visualizzata con quella autentica, oggettiva, esteriore
- ammesso che esista, ovviamente - che permane quando non guardiamo più. Ciò
che vediamo è un insieme di stimoli originati dalla luce, stimoli che il
cervello rielabora secondo le sue proprie leggi, secondo le nostre necessità di vita, che
presuppongono lo spazio e il tempo. Guardare pertanto significa modificare l’oggetto in questione,
adattarlo alle nostre strutture percettive. E questo è il primo punto.
L’altro
punto, ovviamente, è che il guardare non esaurisce un oggetto, semmai invece lo
fraintende: come potremmo definire un
fiore, ad esempio, se non sapessimo nulla del suo profumo, o della sua
fragilità, o della morbidezza dei suoi petali al tatto? La vista invece trae in
inganno, ci dà un’immagine tutta esteriore e superficiale; immagine che invece non
coinvolge altri animali, quando hanno sviluppato a sufficienza gli altri sensi,
molto più acuti e spesso più rivelatori. Sono molti i sottintesi che ci
sfuggono, i processi latenti che hanno portato un qualcosa ad essere ciò che è
in quel momento, immagine esteriore compresa.
Le telecamere si sono insinuate ogni giorno più a fondo nella
vita delle persone. Abbiamo seguito sul video le notizie in diretta, i
cataclismi, gli attentati; gli omicidi che avvengono quasi in tempo reale, la
reazione dei parenti delle vittime, il sangue ancora caldo sulle mani, sui
vestiti. Abbiamo voluto ricreare una realtà alternativa, fittizia, che funzioni
esattamente come quella ‘normale’, di ogni giorno; soltanto, abbiamo voluto
contenerla in uno schermo, delimitandola con alcuni pollici, in modo tale da
poterla esorcizzare non appena
abbiamo voglia, semplicemente spegnendola e ritornando alla nostra. Questa
sorta di controllo in fondo è quello
che ci appaga: perché altrimenti reinventare tutto quello che c’è già?
Abbiamo inventato i reality,
con la pretesa di seguire minuto per minuto la vita intima delle persone, i
loro rapporti sociali - e carnali, quando possibile -, le loro impressioni, le
loro sensazioni. Non abbiamo fatto altro che realizzare il grande sogno del voyeur: vedere senza essere visto. Una
volta ci si accontentava del pettegolezzo,
ricordate? Un mezzo un po’ rudimentale, se vogliamo, ma tutto sommato efficace,
che permetteva di riferire i fatti e soprattutto giudicarli, senza essere
implicati. Dopodiché sono arrivate le soap-opera,
le fiction, con la pretesa innovativa
di rappresentare esaurientemente le dinamiche interfamiliari che incuriosiscono
tanto i vicini di casa, e rappresentano di fatto il desiderio inconfessato di
conoscere al di là del muro, desiderio tipico di quella sorta di “inconscio
collettivo condominiale” che ci portiamo tutti dentro, chi più chi meno. Ma tutto
ciò non è bastato, purtroppo. Gira che ti rigira, siamo approdati al reality vero e proprio, il definitivo
trionfo della realtà sullo schermo! Niente
di più ingannevole, purtroppo. Non me ne vogliano gli appassionati del genere,
ma la realtà a cui questo genere aspira non esiste, o perlomeno è contraffatta
notevolmente. Cosa significa? Abbiamo già visto che il solo fatto di guardare un oggetto lo modifica
irrimediabilmente. Ora, se provassimo a trasferire questa considerazione nel campo del reality, cosa troveremmo? Semplicemente un prodotto già fatto e
finito, confezionato con cura per le nostre esigenze: una realtà surgelata, buona per tutti i gusti. E non può essere
altrimenti, infatti: la presenza della telecamera annichilisce o annulla
immediatamente quel principio di realtà
cui ci atteniamo nella nostra vita. La consapevolezza di essere guardati
suscita in noi l’immediata tentazione di esibirci
o di nasconderci: assumiamo una
consapevolezza molto più lucida delle nostre azioni, ce ne inebriamo o ci
inibiamo improvvisamente. La telecamera produce una sorta di “effetto-vetrina”
in cui la nostra integrità si spezza; ci frantumiamo in tante immagini riflesse
attraverso le quali rivediamo noi stessi, sempre più lontani e sempre più
legati alla domanda e soprattutto all’aspettativa
di chi le sta guardando.
Un discorso diverso si potrebbe fare per le ormai obsolete candid camera, il cui periodo d’oro è da
situarsi pressappoco all’inizio degli anni ’90. In quel caso perlomeno le
persone immortalate non sapevano di esserlo, e mantenevano per questo motivo
una sorta di spontaneità. Vi siete mai chiesti allora come mai, in un’epoca di reality come questa, le candid camera siano state accantonate
così drasticamente? La risposta purtroppo è semplice, ed ha a che fare con “l’esigenza
della realtà” che si persegue a tutti i costi. La realtà, quando è davvero
tale, si riconosce per la sua manchevolezza, per la sua incapacità di dire l’ultima
parola; la realtà vera non può stare in una griglia preordinata e soddisfare
per questo esigenze pregresse. Ma la curiosità
non si soddisfa con gli enigmi: vogliamo sempre qualcosa di certo, di sicuro;
un bel ritratto a tutto tondo, coi suoi pregi e i suoi difetti; qualcosa di
morbido da masticare, facilmente digeribile, dal sapore gradevole ma non troppo
complicato. La curiosità non ama le ombre, e tantomeno le sfumature; non ama affatto
i tempi morti, dove non succede nulla; non le piacciono le introversioni, i
troppi giri di parole; vuole vedere ogni cosa accadere, succedere, manifestarsi. Ma non tutto ciò che è vero è
manifesto. La vita è un qualche cosa di complesso, contiene troppe implicazioni
per poter essere condensata in un qualcosa di esemplare, un fotogramma isolato
nel tempo. Isolarla infatti, tagliarne un pezzo o una parte, ricostruirla in un
laboratorio artificiale significa solo fraintenderla, modificarla o
distruggerla. Una scimmiottatura ridicola è tutto ciò che otteniamo, una
contraffazione di pessimo gusto. Ma veramente siamo ridotti a questo?
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